Bonefro: Fontana della Terra 1771
 

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Microcosmi e globalizzazioni

Bonefro: esempio di un microcosmo tra i rischi di dispersione definitiva nell’attuale globalizzazione.

 

I - Introduzione


Bonefro? Cos’è, dov’è? È uno dei tanti posti magici di un’Italia poco nota agli Italiani, piccolo paese di una regione, il Molise, che va dal breve litorale adriatico fino alle alture di Campitello Matese. Al distratto e al superficiale l’area può apparire priva di motivi di spiccato interesse. Folco Quilici, che vi ha girato un documentario, l’ha definita “un’oasi nel tempo”, cogliendo sicuramente un aspetto del fascino discreto di questi luoghi. Il rifiuto dell’appariscenza e dell’invasività, tratti insieme dell’orografia e dell’identità di chi vi abita da millenni: curve ondulate e contenute che si susseguono e cullano l’occhio, fino a suggerire un senso di infinito leopardiano. Che non incombe, cioè, e non spaventa; e aiuta anzi a recuperare una misura e una compostezza, suggerite dalla finitezza calda e accogliente del territorio.
Non mancano ovviamente, anche qui, le follie cementizie degli ultimi decenni; evidenti nei centri più grossi e sul breve litorale, che va da Vasto (ultimo centro abruzzese) fino all’inizio del promontorio del Gargano. Termoli (antico borgo marinaro) è ormai diventato il più vasto aggregato residenziale e vacanziero della costa, con forme di devastazione del territorio che tendono, qui come in altre parti d’Italia, all’affollato e al caotico. Diventano, anche per questi aspetti, interessanti alternative i paesi posti all’interno.
Bonefro è uno di questi. A circa quaranta chilometri da Termoli, potrebbe essere raggiungibile in una ventina di minuti, se solo fosse stata completata una strada con lavori in corso da decenni. Uno dei mille esempi di una politica ignobile che, a livello nazionale e locale, ha praticato soprattutto mercato clientelare e arricchimento personale. Il risultato è, ad esempio, un’opera come la superstrada della Valle del Biferno, che (negli anni settanta) ha realizzato sì un collegamento veloce tra Termoli e Campobasso, ma correndo come un serpente di cemento lungo il fondovalle lascia collegati in modo del tutto insoddisfacente, decine di paesi. Un percorso alternativo avrebbe probabilmente evitato gli insensati trampoli di cemento che servono a guadare il laghetto artificiale del Liscione, che lo stesso Quilici ha dovuto omaggiare per contratto e che sono sicuramente serviti ad alimentare fatture ai cementieri e tangenti ai politici.
Ma, quale che sarà la condizione viaria, rimarrà fondamentale – per Bonefro e ogni altro nucleo con una storia antica alle spalle e una condizione di marginalità nel presente – cercare di fare, nell’attuale mare e frullatore globalizzante, i conti con se stessi e il proprio specifico modo di essere. La condizione di marginalità difficilmente potrà essere cambiata, ma potrà essere ridotta, addirittura trasformata in valore. Il che renderà ancora più acuto il problema culturale di un’acquisizione di coscienza critica della propria specificità e i suoi caratteri, rispetto alle grandi epoche storiche che si è trovata ad attraversare.
È stato questo l’obiettivo che ha fatto avviare tra il 1998 e il 2004 l’associazione culturale “La Casa Bonefrana”, con un corrispettivo periodico e uno statuto che dichiarava di voler: “favorire la circolazione di informazioni riguardanti la vita dei Bonefrani, residenti in paese e fuori, sia in Italia che all’Estero”; “raccogliere ricerche, riflessioni, documenti e quant’altro, riguardanti attività” o “modalità tipiche, tali da giustificare l’ipotesi di una identità bonefrana”; e ricomporre così “una più organica memoria collettiva” al fine di far acquisire maggiori “capacità, individuali e collettive, di affrontare i problemi socioculturali ed economici del futuro”. La somma di carenze oggettive e soggettive (vedi in proposito qualche accenno nelle Considerazioni finali di questo scritto)2 ha fatto arenare l’ambizioso tentativo, che è comunque riuscito a pubblicare alcuni numeri del periodico suddetto con significative riflessioni, testimonianze e memorie. Procedendo su tale linea, proponiamo qui alcuni approfondimenti, occupandoci di tre grandi periodi: le origini e il periodo romano, la fondazione e il periodo longobardo, l’arco degli ultimi cinquant’anni.
E cominciamo, con una sorta di percorso a ritroso, dalla storia più recente.

II - Il buconero degli anni 50-70.
In 20-25 anni (dagli anni 50 agli anni 70) il paese ha subito un salasso peggiore di qualunque guerra o epidemia precedente. Dai 5-6 mila abitanti degli anni 40-50, ora ne conta circa 1.500 e, senza cambiamenti, il trend attuale è un annuncio di scomparsa. Un flusso migratorio di tali entità, in gran parte (contrariamente a quanto era accaduto nella prima metà del secolo) senza ritorno, non poteva non avere effetti devastanti. La profondità delle devastazioni – sociali, affettive ed etiche – prodotte da processi con caratteri di massa come quelli di cui stiamo parlando, devono forse essere ancora adeguatamente analizzate. Nelle fasi più acute – a Bonefro come in altri centri del Mezzogiorno – il movimento migratorio assunse l’aspetto di una fuga scomposta, come di chi sta abbandonando una nave che affonda. Lo spirito era quello del si salvi chi può. Il territorio d’origine diventava una sventura e un nemico da cui affrancarsi o liberarsi, quasi una sorta di vergogna da nascondere o un peccato originale da emendare. In tali condizioni, ogni precedente tensione sociale solidale e connettiva, diventava un intralcio e un disvalore. Ognuno per sé e Dio per tutti. L’identità socioculturale precedente, col suo corrispondente senso di appartenenza, divenne presto moneta svalutata in rapporto a quella vincente del più cinico individualismo. L’ideologia capitalistica apparve a molti come l’unica divinità o possibilità di salvezza. Come meravigliarsi se, in tale clima, tra quelli – ed erano i più forti o attrezzati di energie, preparazione o disperazione – che si affollavano a questa o a quella frontiera (interna o esterna) si svilupparono classiche forme cannibalesche di guerre tra poveri, con vendette personali e ignominie delatorie, vere e false, presso questa o quella ambasciata, in particolare del Nord America.
Queste ultime (non dimentichiamo che siamo negli anni del più violento maccartismo) praticavano il metodo del sospetto generalizzato, con vere e proprie cacce alle streghe, rispetto a ogni minima traccia di comunismo nel sangue dei fortunati accolti e salvati.Bastava una lettera anonima per bloccare con le valigie in mano intere famiglie, che avevano venduto ogni cosa, poco o tanto che fosse, e avevano dunque alle spalle il vuoto. Tutti gli scontri ideologici tra rossi, bianchi e neri diventarono un catino di acqua sporca, in cui riemersero ingigantiti e distorti certi tratti dell’identità originaria di questo microcosmo: individualismo arcaico, sospettosità e istinti di salvezza animale, derivati dalle pratiche lavorative agricole svolte nell’arco di millenni in modo solitario e in territori alquanto isolati. Tutti cercavano così di svolgere nel massimo segreto possibile le lunghe e complesse pratiche di espatrio; che riguardavano tutti i componenti della famiglia  (anche quelli che non dovevano partire, compresi ascendenti, discendenti e collaterali) pedanti controlli medici e, soprattutto, indagini parapoliziesche con richieste di informazioni presso questura, parrocchia e municipio. La trafila di tutte queste pratiche assumeva inevitabili forme di umiliazione, per cui chiunque vi si trovò coinvolto fu prosciugato di orgoglio e dignità, spinto a mentire, anche solo per paura che un particolare diventasse rilevante o un impedimento alla partenza. Quasi tutti furono insomma piegati a qualche forma di meschinità o menzogna, vendendo l’anima al diavolo e nascondendo questo scambio a se stessi e agli altri.
Ora, per cercare di immaginare quali lacerazioni sociali e quali devastazioni morali possa aver prodotto questo vortice di modalità e di fatti, occorre ricordare che un altro dei tratti dell’identità originaria di questi luoghi era ciò che si concentrava nel termine faccia. L’individualismo arcaico e la sospettosità derivanti dall’attività isolata trovavano, come dire, momenti di composizione aggregante nel fatto che ognuno doveva essere (con le parole, le capacità professionali e i comportamenti ripetuti) assolutamente credibile, costruendo un’immagine di affidabilità sociale di sé, che aveva come premio il riconoscimento dell’identità individuale e dell’appartenenza alla comunità. Da qui derivava una franchezza anche rude. Il rischio inaccettabile era la possibilità di essere smentiti o di non mantenere una parola o una promessa fatta,  condizione di appartenenza a quella comunità. L’immagine dunque, la faccia, con la religione della parola data, costituivano questione di vita o di morte sociale, ed erano una delle strutture etiche portanti per tali individui. Individui che, per questo, comperavano terreni e case con una stretta di mano; nessuno si sarebbe infatti sognato di tradire la propria parola, rischiando la pena capitale come soggetto sociale, cioè soggetto tout-court. Individui che, per le stesse ragioni, vedevano come una follia e un disonore la firma di una cambiale, vista di per sé come dimostrazione di inaffidabilità sociale, dato l’impossibile scambio di una promessa e scadenza categoriche con la propria perenne precarietà.
Solo tenendo presente tutto questo complesso contesto eticosociale si può immaginare cosa possono aver causato in tali soggetti comportamenti assimilabili a quelli di animali o di bambini spaventati, resi per questo proni e bugiardi rispetto alle varie forme di potere, fino alla viltà anonima verso nemici ideologici che erano comunque parti dello stesso tessuto sociale (in questo senso fratelli), dove i pochi motivi di scontro venivano in genere affrontati a viso aperto. È superfluo precisare che tali comportamenti deteriori non hanno toccato la generalità. Molti, per casualità o per forza d’animo, riuscirono a custodire la propria dignità. Ma è indubbio che gli strappi sociali e individuali furono ampi e profondi. E per coloro che non partirono, che andamento ebbe la stessa fase storica? Alcuni (tra i più grossi agricoltori) trassero vantaggio dal fatto che molti terreni furono lasciati liberi. Altre categorie, come i dipendenti pubblici, godevano già di un relativo privilegio rispetto a una condizione complessiva di bassi redditi e crescente precarietà. Ma i più, tra coloro che rimasero, subirono strappi con depauperamenti umani ed economici forse peggiori di quelli sofferti da chi era partito. Questi ultimi, con lavoro duro e sacrifici, recuperarono in genere – nei nuovi contesti economicosociali – molti pezzi della dignità smembrata e ferita dal processo migratorio. Per coloro che rimasero la politica non trovò di meglio che trasformarli in merce elettorale.
Tra i partiti (con poche eccezioni) da un lato, e i titolari del diritto di mettere una croce su una scheda elettorale, dall’altro, si scatenò un altro terribile e umiliante commercio. Una parte della nuova ricchezza prodotta dall’imponente sviluppo capitalistico venne utilizzata dal termitaio politico per compensare l’acquisizione di voti. E i compensi (si sa, non è solo la storia di Bonefro) presero le forme di pensioni e posti fasulli. Organici pubblici gonfiati senza soste e pensioni elargite in un’aria di festa senza fine. Anche qui trafile di carte (autentiche e false), che coinvolgevano burocrati, medici, ed emissari di partiti e sindacati: difficile rimanere fuori da una ressa che macinava in un altro modo i brandelli di dignità di questo ramo interno del flusso migratorio. Per i politici, l’interesse di parte veniva nobilitato dai benefici offerti e dalla funzione di controllare le tensioni derivanti da fenomeni sociali così vasti; mentre per i cittadini, la debolezza economica e la corsa generalizzata (per cui chi non partecipava invece della stima, meritava la derisione) giustificava ogni mezzo: l’importante era l’ottenimento di un pezzo di torta di quello strano banchetto, costi quel che costi.
Difficile rendersi conto che quel tipo di banchetto trasformava tutti i partecipanti in questuanti. Se in chi partì, certe umiliazioni subite (dalle burocrazie o dai contesti socioeconomici di arrivo) provocarono sicuramente un trauma e un bruciore, in chi rimase la situazione divenne ambigua e scivolosa in modo più graduale. Fatto sta che, in pochi anni, certi precedenti codici eticomorali come il culto del lavoro, con l’orgoglio di farlo e farlo al meglio, divennero anch’essi moneta svalutata. La misura man mano prevalente del valore divenne il danaro, comunque ottenuto. Perciò sui due versanti dello smembramento migratorio si svilupparono fenomeni degenerativi del vecchio blocco dell’identità originaria, che nel bene e nel male era riuscita a mantenere una sua qualificazione e riconoscibilità fino agli anni ’40. Ora tale riconoscibilità è più problematica. Per questo, negli articoli di fondo dei due numeri citati de “La Cosa-Casa Bonefrana” ho parlato di buconero degli anni 50-60, ma per quanto sopra detto occorre in effetti arrivare fino ai nostri giorni. Per questo l’indagine e le misurazioni non possono che proseguire e coinvolgere le attuali giovani generazioni. Dico blocco non a caso: faccio infatti riferimento a un’identità costruita sullo stesso territorio da millenni di esperienze, e attraverso vicende storiche che vanno dal 1000 a.C. alla prima metà di questo secolo. Quali erano, dunque, i tratti originari e le caratteristiche fondanti di tale blocco?

III – Dalla protostoria al periodo romano
Per lo sviluppo delle riflessioni che seguono, trarremo ampie sollecitazioni dalle tracce e dai qualificati contributi forniti dal libro “Binifero, una storia millenaria” (edito in proprio, Milano 1999, in seguito BM), di Michele Colabella, studioso locale che ha dedicato diversi testi alle fasi storiche succedutesi nell’area bonefrana, prima e dopo la fondazione del paese. Pur con qualche riserva sulla sua struttura3, il testo è notevole per l’insieme di elementi, notizie e deduzioni, riguardanti il lungo arco di una storia minima di quasi tremila anni4. Nei primi tre capitoli del libro troviamo, fra l’altro, preziosi documenti originali: un diploma di donazione del 1049, che consente di collocare, per la prima volta e con una certa precisione, ad almeno mille anni fa l’incastellamento (e con esso la nascita del paese) da parte dei Longobardi; un Capitolato e due transazioni relativi ai secoli XVII e XVIII (Cap. II), più tutta la documentazione (Cap. III) dedicata al periodo (XVIII sec.) sotto il segno del vescovo di Larino Giovanni Tria.
A cominciare dal periodo relativo ai primi insediamenti (X-VIII sec. a.C.), il volume offre una catalogazione completa dei contributi finora dati alla ricomposizione di uno scenario così nebuloso e lontano. Il territorio relativo all’agro bonefrano è collocato all’interno del triangolo costituito dai torrenti Cigno e Tona (che formano una sorta di vertice verso nord-ovest) e dal fiume Fortore (che forma una base inclinata da sud-ovest a nord-est). In corrispondenza del vertice nord-ovest si trovava, nell’epoca romana, Gereonium (Gerione, di cui ora ci sono solo resti); e poco oltre si collocava Larinum (l’attuale Larino). Tutta l’area era poi attraversata dal tratturo Celano-Foggia e, sempre in epoca romana, da una strada detta Larinense, di cui si sono perse le tracce.
Tracce invece dei primi insediamenti umani nell’area risalgono fino al X secolo a.C.; e le stesse tracce indicano una indubbia prevalenza etnico-culturale sannitica. Le deduzioni sono derivate, ad esempio, da una prevalenza di statuine del culto di Ercole, tipico dei Sanniti, rispetto a statuine di Athena, riconducibile all’iconografia di culto dei Dauni; da caratteri inscrittorii in lingua osca (sannita) su lapidi, tavole (vedi quella di Agnone) (MB, p.30), strumenti e monete. Ma “la prova decisiva”(MB, p.23) più determinante è stata la pratica del rituale funerario, con camere tombali che prevedevano la postura distesa del cadavere, e non accucciata come era presso i Dauni – come sempre è il rapporto con la morte che rivela di più la vita e l’identità di chi la incarna. Il rilevamento di queste tracce archeologiche, relative non solo alla ristretta area indicata, ma a tutta la provincia di Campobasso e all’intero Molise, è dovuto come si accennava a parecchi studiosi. I quali hanno rinvenuto e catalogato oggetti risalenti fino alle età del ferro e del bronzo, e testimonianti il lungo processo di acquisizione di una stabile padronanza del territorio5.
Seguendo allora anche noi tali tracce, possiamo dire che il processo di insediamento avvenne per opera di gruppi di Sanniti, i quali hanno continuato a espandere il proprio territorio fino all’incontro-scontro con il movimento espansivo dei Romani. Con questi ultimi lo scontro era ineluttabile: due culture e due concezioni dell’organizzazione sociale, amministrativa e militare. Da un lato i Romani, con una guida centralizzata e imperiale del movimento espansivo e della struttura statale; dall’altro i Sanniti, che affidavano la propria espansione a un movimento migratorio spontaneo, non governato da un centro, ma da ogni gruppo sulla base delle elementari sollecitazioni dettate dalla capacità di sostentamento del territorio già occupato. Il mezzo era il rito arcaico del ver sacrum o “primavera sacra”, con cui alcuni componenti di una comunità venivano spinti “a cercare nuove sedi sotto la guida di un animale sacro”(BM, p.23): ne derivava, nel bene e nel male, un movimento non coordinato, di tipo anarchico, con forme di autogoverno dei vari gruppi, raccordati agli altri in una sorta di primordiale rapporto federativo.
È stata questa modalità irradiante a creare presumibilmente nel tempo – da una partenza unica comunemente attribuita all’area umbro-sabina e nord-picena – ben cinque gruppi di Sanniti: Caudini, Irpini, Pentri, Carricini e Frentani6. Tuttavia, riguardo ai Frentani si sono manifestate, tra gli studiosi, diversità di opinioni. Già tra Plinio e Strabone sono rilevabili discordanze, con il primo che tende a escludere e il secondo che invece  ne riconosce, l’appartenenza ai Sanniti. Sopra abbiamo parlato di indubbia prevalenza di reperti attestanti alfabeto, culti e riti, comuni a tutti i Sanniti. Qual è stata allora la causa delle incertezze, antiche e recenti, relative ai Frentani? Il fatto è che, prima di tutto, lungo il versante adriatico il territorio frentano raggiungeva la linea estrema della frontiera verso sud dell’area sannitica. Poi, dopo le tre lunghe guerre con i Romani (durate ben 57 anni, dal 347 al 290 a.C.), le cose si sono ulteriormente complicate.
I Frentani furono i primi a essere sconfitti (nel 319 a.C.), e a chiedere (nel 304 a.C.) la pace separata con un patto di fedeltà e alleanza – foedus – con Roma (MB, p.24). Come può essere letto questo fatto, come segno di diversità dei Frentani rispetto agli altri gruppi sanniti?, o come successo della strategia militare romana, applicata all’anello più debole della catena avversaria?, come senso prammatico comune a tutti i gruppi sanniti, o come segno specifico di inaffidabilità e minore coesione dei Frentani rispetto agli altri gruppi? Gli storici migliori sanno che il loro sapere resiste a ogni tentativo di collocarlo tra le scienze esatte, come esso proceda in una progressione senza fine, capace sì di scartare per sempre alcune ipotesi, mai però riuscendo (per fortuna) a eliminare la ricchezza della sua problematicità priva di risposte definitive. Ma, riguardo ai Frentani, i riscontri di lungo periodo tendono a smentire (come vedremo) le ipotesi di una loro prammaticità levantina o di un opportunismo svincolato dall’origine sannita.
Ad ogni modo, dopo il patto di pace e alleanza con Roma, Larinum si ebbe in cambio, con (in)volontaria perfida ironia, lo status di civitas foederata (MB, p.32). Cioè: il sostanziale precedente rapporto federativo tra i gruppi sanniti venne formalmente mantenuto, persino apparentemente rafforzato –quasi come le promesse di carta, proprio sul federalismo, fatte da certi politici di oggi. In realtà si trattò di un  federalismo (solo) nominale per i Sanniti, relativo o di una qualche sostanza per i latifondisti romani, che nel frattempo erano diventati i padroni dell’agro larinense. Così Roma non ebbe problemi a dare lo status di Municipium, con anfiteatro e tutto il resto, al nuovo Centro della Bassa Frentania; tutta l’autonomia di quest’ultimo era quella di un pianetino messo a orbitare nell’economia della Daunia Apula, basata sulla pastorizia, e secondo una ripartizione globalizzata più confacente agli interessi dei Romani. Nessuna meraviglia se poi gli storici facessero fatica a vedere ancora Larinum come dei Frentani, e la vedessero invece più facilmente come città dell’Apulia.Gli stessi fatti possono essere letti in modo del tutto opposto. Ad esempio, i Romani fecero di tutto per far perdere l’identità al popolo insistente sull’area in cui poi nacque Bonefro; si potrebbe anche dire – con  un’enfasi intinta in un veleno preconcetto – che fecero di tutto per imbastardirlo. Ma si potrebbe anche dire che li fecero uscire dalla protostoria e dall’animalità, per internazionalizzarli e renderli moderni; ”internazionalità, comprovata dall’uso di tre alfabeti, l’osco, il greco eil latino” e “strettamente correlata all’indipendenza politica”, come sottolinea Adriano La Regina (MB, p.34),  favorendo scambi e incroci con altre etnie e culture, che poi – rappresentate dalla Daunia Apula – erano lì a due passi.
Del resto, c’era quella sorta di autostrada del sole, quale era allora il tratturo Celano-Foggia, un’arteria di intensi scambi di oggetti. Ma questi non sempre vengono traslati insieme alle culture: quanti oggetti dell’artigianato africano (o filippino, cinese, mediorentale, giapponese) sono nelle case europee, solo per esotismo e nient’altro. Per cui ci andrei cauto ad accettare l’affermazione di Elena Antonacci Sanpaolo, la quale rovescia la tesi precedente fino a sostenere che “attraverso il tratturo si deve essere realizzata la sannitizzazione di Tiati – osco di Teanum Apulum (MB, p.33). Io credo che non si possa parlare né di sannitizzazione dell’Apulia, né di daunizzazione, neppure limitata all’area larinense, della Frentania. Certo, con gli scambi ci furono reciproche influenze, ma penso siano state parziali e a macchie di leopardo. Lo stesso Cesare, nel Bellum civile dicendo: “per fines Marrucinorum, Frentanorum, Larinatum in Apulia pervenit” (MB, p.34) (attraverso i confini Marrucini, Frentani e Larinensi giunsi in Apulia) distingueva ancora, almeno in senso geografico, Larino dall’Apulia. Mi pare perciò lucida la notazione di Gianfranco De Benedettis, che fa derivare dal patto di pace e alleanza del 304 a.C. lo “spostamento dell’asse economico e culturale di Larinum verso il sud”(MB, p.34); col che si sviluppò una tale “comunanza di interessi” che fece sempre più diventare Larino città dei Dauni, come annota Stefano Bizantino nel VI secolo d.C. (MB, p.32).   Ma è questa una tesi da assumere come completamente vera e definitiva?
I Romani avevano capito, pur vincendo, la pericolosità dei Sanniti. Questi erano stati sopraffatti da una macchina da guerra e da una cultura più avanzate ed efficienti, ma avevano dimostrato una incredibile resistenza, non solo militare, al loro assorbimento nella cultura e nel modello statuale romano. I Sanniti erano come un tessuto a larghe maglie con buchi e concentrazioni di nuclei, relativamente coordinati e organizzati tra loro. Dov’era dunque la fonte di una resistenza così pervicace? Credo stesse nell’esperienza quotidiana di una vita abbastanza povera di mezzi, ma ricca di autonomia; la prospettiva con i Romani era invece l’indubbio asservimento a un potere estraneo. Queste ed altre considerazioni mi spingono a sintetizzare l’anima e la cultura sannite nell’ossimoro di un’arcaica modernità, espressa in forme (vedi reperti di statuette di culto, di vasellame d’uso o ornamentale, o certe modalità inscrittorie) di raffinato barbarismo.
Il modello romano alla fine ebbe comunque la meglio, dimostrando di essere in ogni caso più efficace e superiore nella sua logica imperiale di divisione e distruzione. Applicando tale logica, nel corso dei due secoli successivi alle tre guerre, il territorio sannita (con le sue genti) venne saccheggiato, confiscato, diviso, comprato e anche reinventato (quanto alla sua utilizzazione) dai Romani; i quali con la brutalità e l’acume economico-politico del loro modello non stettero a guardare etnie e precedenti colture o destinazioni territoriali. Guardarono alle esigenze della loro globalizzazione – la quale implica sempre una forma di impero. Perciò di cinque aree sannitiche ne fecero tre, dividendo chi voleva stare unito e unendo chi voleva restare separato: delle colture agricole fecero pascoli, rispetto ai quali i latifondisti e coloni romani (che nel frattempo si erano appropriati dei terreni) ne guadagnavano in facilità di gestione, raccordo con i territori della Daunia settentrionale, e più affari con la capitale – che chiedeva montagne di filati, sia per le inesauribili esigenze dell’esercito che per le raffinate vesti del lusso patrizio…insomma un bel mercato, che raccordava dominio e soldi.
Entro tale quadro Larinum fu scelto e sviluppato dai Romani come bastione e centro di diffusione della propria cultura, intesa non in senso libresco, ma come complesso di modalità d’essere e di rapportarsi tra i soggetti di una comunità, comprensivo quindi delle relazioni di carattere economico. Lo status di autonomia del comprensorio larinense non fu certo istituito per magnanimità o per una improvvisa conversione romana alla cultura di un’organizzazione federale. Si potrebbe dire che l’obbiettivo dei Romani era…diviso in due. Verso l’area larinense, era quello di un suo assorbimento nella cultura e nell’economia romanizzate del sud e della Daunia Apula; mentre, rispetto al nord sannita, consisteva in un’irradiazione di inviti a seguire un esempio foriero di vantaggi e privilegi. Tuttavia i Sanniti potevano essere rozzi, ma non fessi.
Gli alleati di Roma (i cosiddetti socii) erano sempre subordinati e tenuti in un limbo di seconda linea: in una perenne lista in attesa di diventare cittadini romani, con pienezza cioè di diritti e di possibilità di partecipare allo stesso grado di distribuzione della ricchezza sociale. La corda tesa per quasi trecento anni (dopo le prime tre guerre dal 347 al 290 a.C.) alla fine si spezzò, provocando una vasta insurrezione che coinvolse tutta l’area centromeridionale e vide (dall’89 al 91 a.C.) combattere di nuovo assieme tutti i gruppi Sanniti, compresi i Frentani! Nel corso di tali scontri la rilevanza municipale e l’internazionalità di Larinum non commosse né esaltò troppo: la città venne devastata come segno di un potere estraneo, mentre i Romani presenti nelle zone coinvolte, come rappresentanti di quel potere, furono oggetto di violenze e massacri.
Roma reagì a sua volta con ferocia, con stermini di massa e vere e proprie pulizie etniche da parte di Silla, che secondo Strabone decretava: “ per i Romani non ci sarà pace né sicurezza, finché i Sanniti saranno una comunità”. E l’imperatore Augusto, tra il 9 e il 14 d.C., si mosse secondo tale principio informatore, dividendo e rimescolando in tre regiones le comunità sannitiche, facendo in modo che il Samnium come entità geografica e sociale non dovesse “più esistere” – V. A. Sirago (MB, p.46).

IV – La nascita del paese e il periodo longobardo
I Longobardi tendevano a un’organizzazione senza un centro forte, che poteva ricordare per certi versi quella dei Sanniti; con la differenza che se tra questi ultimi, come dice Domenico Musti, le articolazioni, “per effetto di una precisa politica romana”, erano man mano diventate solchi (BM, p. 24-25), tra i Longobardi erano in genere canali, entro cui risuonavano spesso le armi. E dunque ogni duca, conte o marchese diventava un despota pressoché isolato che doveva succhiare quante più risorse ai sottoposti, al fine di approntare continue difese della propria signoria. Ma se le difese nei confronti di questo o quell’attacco esterno erano necessariamente affidate alle armi, verso l’interno queste ultime risultarono sempre meno sufficienti a soggiogare le anime. Per questo, i nobili longobardi svilupparono e acquisirono una crescente collaborazione con clero e ordini monacali; e tra questi ultimi furono preferiti per la particolare efficacia del loro motto, ora et labora, i monaci benedettini. Alla fine però il potere dei feudatari longobardi divenne sempre più subordinato a quello del clero o delle fondazioni monastiche. Le continue donazioni – come quella del 1049, riguardante il monastero di S. Eustasio e in cui viene citato Binifero – a favore di varie istituzioni ecclesiastiche, non sono che una traccia in tal senso. Donazioni fatte sempre per l’anima nostra, dietro cui l’essenza era il potere, ceduto pezzo a pezzo da titolari poco colti a favore di chi non avrebbe avuto titolo, ma aveva più cultura. Gradualmente vinsero quelli che avevano in mano i libri, rispetto a quelli che avevano in mano le armi. Questo almeno, fino al crollo del sistema feudale del XVIII sec..
Come già detto, i documenti forniti dal libro di Colabella dimostrano in primo luogo che Binifero (distorsione secondo la pronuncia meridionale di Vinifero) fu progettato, quanto a incastellamento e colture, circa mille anni fa dai Longobardi. Ma forse per gli scopi di questo scritto sono ancora più significativi gli altri documenti – in particolare il Capitolato, le due transazioni e il sintetico resoconto di una controversia sotto il segno di Giovanni Tria, nata da una pretesa del clero, contrastata con successo, di ulteriori decime sul granturco. Documenti che danno conto di un carattere tutt’altro che remissivo della popolazione nei confronti di quel potere prevaricante, suddiviso tra due teste che spesso si combattono tra loro, e scaricano ulteriori pesi sulla vita dei sottoposti. Anche in tali difficili condizioni quel piccolo popolo ha dimostrato il suo carattere avviando, combattendo e riuscendo anche a vincere, ripetute liti e controversie contro l’esosità, l’ortodossia autoritaria e le angherie di feudatari e clero. 
La ricerca e un ulteriore sviluppo delle tematiche relative al periodo longobardo e medioevale dovrebbero perciò riguardare come e perché questo carattere non remissivo si è manifestato. Perché non è mai andato oltre un ribellismo e un rivendicazionismo localistico, di natura (in termini moderni) sindacale e tradeunionista, senza mai riuscire a elaborare (al pari di tutti i Sanniti) progetti politici generali. Frutti inevitabili delle originarie separatezze territoriali, in parte contrastate dai Romani e poi di nuovo favorite dai Longobardi, che tendevano ad accentuare familismi ed individualismi? E’ solo l’analisi approfondita dei modi che può aiutare a capire le ragioni e i limiti di un modo di essere; che può far diventare moderna, cioè criticamente utile ai contemporanei, quell’analisi.  

V – Considerazioni finali
Dopo questo rapido excursus storico le domande, anziché placarsi, tendono (opportunamente) a ribollire. Posto che i Romani non erano il male e i Sanniti non erano il bene, e che qui non siamo a caccia di mitologie, né positive né negative, è possibile, ad es., ricavare dagli eventuali miti (del passato o del futuro) una nostra maggiore capacità di progetto? Anche i miti possano bloccare o sbloccare questa vitale esigenza: dipende se siamo noi a usarli o se ne diventiamo strumenti e appendici. Se è questo il senso dei quesiti che premono, sentiamone alcuni. Quanto, allora, della pervicace resistenza al cambiamento di quella specie di blocco impermeabile dell’anima sannita (a volte un po’ bovino, ricordando il bove simbolo di Bovianum e dei Pentri, il gruppo sannita più consistente), tendente più a farsi frantumare e disperdere che a farsi assorbire; quanto della capacità di lavoro e della perizia fino alla pignoleria, che ha portato i Bonefrani a gestire per secoli terreni ben oltre il proprio agro o ad affermazioni di rilievo di tanti emigrati; quanto della ruvida e scontrosa genialità, tendente a degenerare in forme ridicole, come quella di sentirsi incarnata in semidei; quanto dell’amore per la propria autonomia, che tende a scadere in iperindividualismo sospettoso, megalomane e autolesionista, favorendo così il suo opposto e la condanna storica a essere divisi e dipendenti, raramente uniti e indipendenti; quanto di quel senso di riservato onore di sé e di etica naturale (o religione laica), che rende i Bonefrani poco adatti ad azioni criminose o a sollecitazioni pietistiche; quanto di tutto questo, che ci viene da un DNA antico, è rimasto nella casa semivuota d’origine; quanto di esso è rintracciabile nei Bonefrani sparsi nel mondo e soprattutto nelle giovani generazioni, che rischiano di ereditare troppi effetti deteriori (come scetticismo, invidia e ipercriticismo, facilmente esaltati da condizioni di decadenza e passività) di ciò che abbiamo chiamato buconero degli ultimi decenni?
Riguardo invece al periodo longobardo, è legittimo chiedersi: al di là dei “relitti…lessicali”(MB, p.62), cosa hanno lasciato i Longobardi nell’anima e nell’identità di queste genti con cui hanno vissuto per secoli? Sembra poco, o poco visibile tra i resistenti e pervicaci residui di quel blocco sannita di cui abbiamo cercato segni e connotazioni. Piuttosto poco, non solo per la scarsa permeabilità di quel blocco, ma forse anche per la pochezza e debolezza della cultura longobarda. E questo, nonostante si debba a loro il progetto della fondazione e il primo nome del paese. Può essere una metafora di questo passaggio superficiale il fatto che di tutti i vigneti che hanno consentito a Bonefro di meritarsi fino al XVIII sec. il suo nome di terra del vino, oggi ne rimangano solo pochi residui, similarmente a quelli di natura lessicale? Eppure, l’esempio concreto offerto, insieme a questa capacità di progettazione e di reinvenzione (dietro la quale c’è sempre una visione globalizzante; il che implica che ogni genere di globalizzazione non è di per sé la visione del Male, ma una condizione in cui misurarsi per cercarvi opportunità e possibilità di vita) del territorio da parte dei Longobardi, meriterebbero di essere ripensati: potrebbero fornire qualche progetto utile per il futuro? 
Abbiamo visto come nel corso delle varie epoche abbiano agito nell’agro bonefrano, prima e dopo la fondazione, diverse modalità globalizzanti. Tra il periodo romano e quello longobardo si è passati, ad es., dalla destinazione a pascolo a quella vinicola. Ora, con l’attuale globalizzazione, si vedono oscillare campi, da un anno all’altro, da bruni pennacchi della dilagante soia a sfavillanti faccioni di girasoli, ad altre colture, sollecitate da effimeri premi e contributi decisi a Bruxelles o a Strasburgo. Per valutare adeguatamente tutto questo e per scelte veramente legate all’interesse specifico di un territorio non bastano più, ovviamente, le decisioni illusoriamente autonome dei singoli agricoltori; servono esperti informati ed istituzioni locali veramente autonome, che possano aiutare a raccordare nel modo migliore la tipicità del piccolo con le opportunità offerte dalla dimensione globale.
Come una piccola matrioska,l’agro del futuro Binifero era territorio di frontiera, che faceva parte di un più ampio comprensorio di frontiera quale quello larinense, a sua volta parte della Frentania, che costituiva una parte della frontiera verso sud dell’area sannita. Oggi, quella matrioska è forse messa in condizioni peggiori, in una marginalità che non dipende da una linea di frontiera, ma da un mare che muta continuamente stato e orizzonti. In esso Bonefro sembra una piccola bottiglia che galleggia impotente. Eppure, da attente riflessioni sul proprio passato, come dagli esempi di altre bottiglie galleggianti nella contemporaneità, oltre che dalle analisi più avanzate dell’attuale contesto, si possono aprire possibilità  impensabili. Tutto, alla fine è sempre nelle nostre mani: questo l’insegnamento da trarre dall’esempio, a prima vista incredibile, di un branco di rozzi contadini che riuscirono a far valere le loro ragioni nei confronti di conti, marchesi e vescovi.
Come abbiamo accennato, la storia è una ricerca sempre aperta e mai finita. Il fascino della ricerca che riguarda i Sanniti e il frammento, che ad essi risale, del piccolo popolo dei Bonefrani, sta negli aspetti da indagine investigativa, quasi da giallo. Come se ci fosse di mezzo un assassinio; e forse un assassino, o un suo ripetuto tentativo, c’è stato, c’è. Forse quello che non è mai riuscito ad altre fasi globalizzanti accadrà, o sta già accadendo, o è già accaduto, con la più pervasiva e invisibile globalizzazione mai esistita: quella attuale. Tuttavia il futuro è nel grembo di Giove e…nelle nostre mani; come nell’orgoglio (se correttamente inteso) di un DNA, che è stato capace di resistere e riprodursi anche in minuscole e disperse particelle; anche quando sembrava completamente sopraffatto.

 

Note
1La presente è una versione più sintetica e aggiornata del testo pubblicato sulla rivista “Miscellanea – Periodico di arte cultura e problemi sociali”, Lancusi (Salerno), Anno XIV, NN. 3 e 4, maggio-agosto 2000;
2Purtroppo, a queste carenze si è aggiunto l’evento drammatico del terremoto del 2002;
3Ci riferiamo ai caratteri delle sue parti: da quello specialistico dei primi tre capitoli (che trattano dalla protostoria al XXVIII secolo) all’impronta divulgativa e cronachistica del quarto capitolo, frutto del desiderio dell’Autore-editore di fornire una sorta di variegata strenna in occasione del 950esimo anniversario del diploma di donazione del 1049;
4Questo libro si coniugava dunque agli scopi indicati nello statuto de La Casa Bonefrana; e questo scritto ne vuole dare testimonianza sviluppando di temi da me toccati anche nel corso della presentazione pubblica (tenuta a Bonefro il 13 agosto 1999, insieme ad A. De Niro, G. De Benedittis ed altri studiosi), alla quale ho partecipato anche come promotore ed esponente, al pari dell’Autore, dell’Associazione culturale bonefrana;
5Il riferimento è a La padronanza del territorio. Secoli X-VIII a.C., in SAMNIUM, Archeologia del Molise – BI-MI, p. 9 – di Angela De Niro, tra gli archeologi che, seguendo con passione di segugio ogni traccia (oggettistica, cimeli funerari e resti di insediamenti), hanno contribuito all’arricchimento e alla ricostruzione del quadro complessivo. Tra gli altri studiosi che, oltre allo stesso Colabella, hanno dato contributi consistenti, qui ci limitiamo a citare per brevità: Napoleone Stelluti (Epigrafi di Larino e della Bassa Frentania, Campobasso 1997) ed Eugenio De Felice (Larinum, Firenze 1994);
6Sull’argomento specifico: Gianluca Tagliamonte, I Sanniti, Caudini, Pentri, Carricini, Frentani – Longanesi, Milano 1996;