GLI ARTIGIANI A BONEFRO NEL DOPOGUERRA.

          

Nel  ricordare gli artigiani  che erano a Bonefro nella mia infanzia non posso che far riferimento ai ricordi personali di quei tempi riferendomi alle botteghe che meglio conoscevo. Le altre non erano molto diverse perciò parlare di qualcuna di esse è come parlare anche di tutte le altre.

            Mi è rimasto dentro il profumo del legno. Se passo davanti a una bottega di falegname, ancora oggi mi fermo, guardo dentro e ne annuso gli odori come un cane che ritrova casa. Sono ormai poche le botteghe dei falegnami così come quelle degli altri artigiani. Non sono più le stesse: ronzano di macchinari e l’odore è quello del truciolato che non è vivo, è un finto legno e non ha un vero odore. Ritrovo l‘antico ambiente- con il bancone, le pialle, gli scalpelli, le raspe e le lime, gli odori di antiche vernici e colle-  nelle piccole botteghe dei restauratori di mobili in certe stradine di Firenze, anch’esse sempre più rare. Non ci sono nemmeno più amici fermi a parlare nelle botteghe. Tutti sembrano avere fretta, il tempo è danaro; chi ne ha da perdere se ne sta davanti alla TV, in solitudine ad assistere a finte liti, a finti poliziotti, a finte battaglie, a finti politici. Siamo diventati adoratori di ombre elettroniche.
             Ho provato a frugare nella memoria e ricordare gli artigiani conosciuti a Bonefro quando ero ragazzo. Ho provato anche a contare i negozi che c’erano. Ho contato 10 falegnami, 9 barbieri, 6 fabbri, 9 sarti, 6 calzolai, 2 stagnini, 1 ramaio; 9 negozi. Tanti, mi sono detto, e di certo qualcuno mi è sfuggito anche per un paese che allora- inizio anni ’50-  contava quasi 6 mila abitanti.
            Il motore della vita bonefrana era l’agricoltura ma erano presenti diverse altre attività che se non arricchivano consentivano una vita dignitosa: artigiani e negozianti non vivevano nell’abbondanza ma riuscivano a campare. Perché bastava poco. Riuscivano anche a canticchiare mentre lavoravano: ho ancora nella mente la voce stonata di mio padre e quella ancora più stonata di mast’ F-d-ric’ , il fabbro di fronte a noi. Lavoravano, cantavano, bestemmiavano, speravano nel futuro che è l’aria della vita.
            Quella di mio padre somigliava alle altre botteghe di falegnami. Non, però, alla bottega-madre di mast’ Frangisc’ ,  isolata nell’ansa della strada verso il Vallone varco non lontano dal mulino dei Pappalardo;  era grande, su due piani e fornita di grandi macchinari elettrici che ronzavano di continuo. Da essa, successivamente portata avanti da uno dei figli, Luciano, erano usciti quasi tutti i falegnami di Bonefro della generazione di mio padre e ne portavano la tradizione anche nell’ uso inglese per qualche strumento, secondando le parole del vecchio mastro che aveva vissuto a Londra che descriveva affogata nella nebbia (civettuosamente raccontava di quando si perse nella nebbia fitta senza riuscire a trovare la strada di casa e chiese aiuto a uno che lo guidò sino a casa con passo sicuro; a lui che, meravigliato, gli chiese come avesse fatto a trovare con facilità la strada, rispose: sono un cieco). Nella bottega di mio padre c’era il grosso banco di lavoro che ancora conservo e che si era costruito a 20 anni quando mise su la sua bottega. Sotto il bancone la sera gli apprendisti ammucchiavano segatura e trucioli ( i pembugl’); affianco i tanti attrezzi di lavoro, lungo il muro appoggiate tavole e compensati. Era anche appesa una vecchia ascia che ancora conservo tra i vari attrezzi di mio padre: gliela aveva data un vecchio falegname della generazione precedente, Giambattista Lepre. Un mastro d’ascia, come si diceva allora. Sul muro c’era anche una grande, lunga scheggia d’acciaio dai bordi frastagliati, lucenti e molto taglienti: mio padre l’aveva raccolta quando, sotto i bombardamenti, gli era caduta molto vicina, mancandolo per poco, scagliata da una bomba. Da una parte sul muro erano anche attaccate vignette satiriche politiche con caricature di De Gasperi, Togliatti, Nenni. D’ inverno una stufa di ghisa bassa e panciuta inghiottiva i residui del legno e irradiava calore sino a diventare rossa. Spesso vi poggiavo sopra il tegamino per sciogliere la colla di pesce. Da una vetrina tra le due ante del portone vedevo cadere i fiocchi di neve e disegnavo figure col dito sul vetro coperto di vapore mentre amici di mio padre parlavano seduti vicino alla stufa. D’ estate la porta era spalancata, la gente che passava lanciava un saluto: zi’ mast’!  o si fermava a parlare e spesso mio padre lavorava vicino all’uscio a lucidare un mobile con la gommalacca ( m-nà e’ pul-tur’) o inchiodare tavole. Dovevano fare di tutto i falegnami, dalle porte alle finestre, alle ruote dei carri, ai vari mobili (conservo ancora un catalogo di mobili degli anni trenta, da mostrare come campione ai clienti). Dietro la porta, sul travicello, mio padre metteva da parte le cicche per poi farne una sigaretta perché tutto andava recuperato: invariabilmente sparivano, le prendeva il giovane Giuseppe che aveva cominciato a fumare ma non aveva soldi. Mio padre faceva finta di nulla; continuava a depositare le cicche.
             Di fronte c’era la bottega di  mast’ F-d-ric’ e mast’ Caitan,  fabbri e maniscalchi, una piccola fucina scura  e misteriosa come l’antro di un mago, ricolma di attrezzi e materiali di lavoro.  All’ ingresso una grande incudine poggiata su un robusto tronco d’albero troneggiava  con la superficie liscia e lucente risaltando sullo sfondo scuro della bottega. Dentro, un grosso banco da lavoro annerito colmo di attrezzi, un trapano azionato da una grande ruota, la forgia con i carboni roventi; sul pavimento aratri, falci, zappe, bidenti: dovevi stare attento a dove mettevi i piedi.
              Domare il ferro richiede abilità, velocità, forza. Per  lavorare i pezzi più grandi  ci si mettevano in tre: uno vero spettacolo. Il mastro teneva con grandi tenaglie il pezzo di ferro arroventato, con l’altra mano brandiva un pesante martello; due aiutanti erano di fronte manovrando ognuno una “mazza”: un enorme martello con un lungo manico, da tenere con due mani. Il mastro dava il via battendo tre volte il martello sull’ incudine poi tutti e tre battevano con violenza il ferro prima che si raffreddasse. Era necessaria una sincronia perfetta: le due mazze e il martello, sollevati al disopra delle teste e abbassati con grande rapidità e forza, si sfioravano in aria- uno a battere gli altri due a levare- ciascuno colpendo con forza e velocemente nel punto preciso il ferro che il mastro rapidamente rigirava sull’ incudine mentre prendeva forma. Era necessario evitare lo scontro in aria, pericoloso, colpire con precisione il ferro ed essere veloci prima che svanisse l’incandescenza e il ferro riacquistasse la durezza. Le mazze e il martello dovevano avere i loro percorsi in aria vicini ma ben separati, piccole rotte che dovevano evitare la pericolosa collisione. Battere la mazza era diventato sinonimo di lavoro duro ma era soprattutto un lavoro di abilità. I colpi, violenti, si sentivano da lontano poi, finito il pezzo si sentiva lo sfrigolio del ferro ancora rovente immerso nell’acqua per raffreddarlo e indurirlo come l’acciaio. Un ferro informe era diventato vomere o falce o zappa. Quella bottega era aperta dall’ alba al tramonto e se dentro il lavoro era incessante, fuori non era da meno: nello spiazzo davanti alla bottega, sotto la “baracca”- una tettoia in lamiera per ripararsi dal sole e dalla pioggia- si alternavano asini, muli, cavalli per essere ferrati o, d’estate, per essere tosati. Mast’ F-d-ric’ modellava lo zoccolo tagliando, raspando e bruciando (un filo di fumo e un acre odore si diffondeva per l’aria) poi adattava il ferro e lo fissava con chiodi speciali ( i pòst’ p’ ferrà) infissi nello zoccolo e ripiegati  affinché non uscissero. Quei chiodi avevano fatto vincere un premio a un bonefrano a Toronto. Mi raccontava mio padre che negli anni 50 un grande magazzino (Simpson) alto sei piani aveva messo un premio per chi riuscisse a chiedere un oggetto del quale il magazzino fosse sfornito. Un bonefrano chiese i chiodi per ferrare gli asini. Un ragazzo apprendista seguiva attentamente il mastro: appena sollevava la mano senza  specificare l‘attrezzo voluto, il ragazzo era pronto a porgerlo. Il padrone teneva sollevata la zampa dell’animale con la coda fissata sotto lo zoccolo per evitare che frustasse i visi. Mast’ F-d-ric’ ascoltava, assentiva, ma non interrompeva il lavoro se non per asciugarsi il sudore dalla fronte. Spettava a noi ragazzi del posto agitare la coda artificiale   ( m-nà a’ cod’) per scacciare le mosche dall’animale affinché non si agitasse o girare la manovella della macchinetta tosatrice. Mast’ F-d-ric’ era nato per lavorare e chi era con lui, figli o apprendisti, doveva adeguarsi. Non per nulla erano i più richiesti della zona e a loro si rivolgevano molti forestieri. Solo la sera, quando la bottega era stata riordinata e gli aratri -  la mattina all’ alba  portati fuori e allineati sul marciapiedi - erano stati rimessi dentro, quei ragazzi si concedevano qualche gioco: breve perché era già buio. Mast F-d-ric, allora, sedeva accanto a mio padre sul gradino della nostra casa affianco alla bottega. Ancora con la mantéra da lavoro sopra i pantaloni, fumavano e parlavano. Mast F-d-ric era abbonato al quotidiano Il Tempo ed era informato di quanto accadeva in Italia. Mio padre era abbonato a un settimanale che rifaceva la storia del Fascismo e di Mussolini (sotto il titolo era riportata la frase di Tito Livio: senza odio, senza nostalgia): ne conservo ancora tutti i numeri, sorridendo al rivedere la pubblicità di certi prodotti e la cattiva qualità delle foto.

            In quelle botteghe il tempo non contava, non c’erano orologi. Nessuno portava l’orologio da polso. La campana segnava i momenti della giornata: mattutino, mezzogiorno, vespro (il saluto del pomeriggio era: bon vespr’), sera. La voce della campana non accompagnava solo le ore del giorno; annunziava  con un linguaggio ben codificato il lutto e la festa. Non era solo la voce della Chiesa ma quella di tutto il popolo. Si interrompeva il lavoro quando si pensava che fosse mezzogiorno (quando c’era bora arrivavano i rintocchi dal campanile) e in caso di dubbio si dava una voce all’ altra bottega : è sunat’ mezjorn?, per riprendere nel primo pomeriggio dopo che qualcuno- ma non tutti- aveva fatto un breve giro in piazza. La partita a scopa al Caffè era riservata per la Domenica. Il lavoro non era un incubo, semmai poteva diventarlo non avere da lavorare. Si trovava anche modo di scherzare. Ricordo l’apprendista appena all’inizio che veniva mandato in un’ altra bottega magari alla parte opposta del paese- da quella di mio padre a quella dei Colelall’  in fondo a via Roma alla fine del paese o a quella di Mast Frangisc - a prendere la mola dell’acqua e se ne tornava sudato con un pesante sacco che doveva aprire davanti a tutti  per vedere che la inesistente mola era un grosso masso di pietra e sentirsi deriso: poteva mai esistere una mola dell’acqua? Beffe e fatica ma anche una lezione per imparare a ragionare e a non fidarsi ciecamente nemmeno del mastro. Oggi molti di noi credono alle moli dell’acqua ma non riescono ad aprire il sacco e verificarne il contenuto.
            Le botteghe erano anche un luogo di ritrovo. C’era quasi sempre qualcuno che entrava per parlare, per chiedere o per dare notizie. Ricordo vagamente quando uno entrò da mio padre e gli annunciò: hanno ucciso Mussolini. Le botteghe più frequentate per ritrovarsi e parlare erano i saloni dei barbieri. Non so perché si chiamassero saloni (ed alcuni ne portavano l’insegna grande sull’ architrave della porta): spesso erano bugigattoli. Le sale da barba erano i luoghi più adatti per conversare e passare il tempo: c’erano le sedie, non c’era rumore eccettuato il ticchettio delle forbici; c’era fresco d’estate. C’era anche un buon odore di alcol e talco, non erano in uso altri deodoranti. Non mancava la Domenica del Corriere; in alcuni saloni c’era un mandolino o una chitarra. Domenicuccio il barbiere ( magro come un chiodo, con un viso grigio lungo e stretto da affamato del quale si diceva che mangiasse  una quantità enorme di pasta e non era mai sazio perché aveva il verme solitario) era molto bravo nel suonare la chitarra. Aldo, invece suonava il mandolino, come Anselmo che era più bravo di lui. Nel suo salone ( un buco stretto e buio in fondo alla piazza) ho imparato a suonare il mandolino, quello stesso che conservo in suo ricordo e che ancora suono preferendolo a un altro nuovo.  
         Ho accennato ai ragazzi di bottega: ognuna ne aveva almeno uno. Non esistevano leggi che regolamentassero questo tipo di lavoro che era prezioso per il mastro; la ricompensa era minima e affidata alla generosità dell’ artigiano. In cambio si imparava un mestiere che poteva permettere di evitare il duro lavoro dei campi. Non esisteva assicurazione contro gli incidenti. Un ragazzo fu colpito dal calcio di un mulo durante la ferratura e morì di peritonite.
         Ho provato – capita alla mia età di non prendere sonno e andare con la memoria al passato- a percorrere mentalmente via Marconi del dopoguerra e contare le botteghe e i negozi. Trovo per prima la bottega di falegname di Michelantonio Vaccaro; affianco abitavano Nicola Rea e il figlio Saverio, muratori; più avanti abitava Michele Rinaldi che alternava al lavoro dei campi quello di calzolaio; poi c’erano la bottega di mio padre e di fronte quella dei fabbri  Liberatore; più avanti i Silvestri ( i Capural’) commerciavano il grano, più avanti c’era il calzolaio Saverio Rea e poi il sarto Celestino Rinaldi; discesi pochi scalini poco prima della curva, il forno di mia zia Clementina Nerone/Massarelli mentre nella casa sopra il forno la giovane figlia Addolorata aveva il laboratorio dove insegnava alle ragazze taglio, cucito e pittura sulle coperte; più avanti c’ era la sala da barba di Domenico Lalli ( Dum-n-cucc’ u barbier’ già ricordato. Successivamente si trasferirà sotto la piazza) e il sarto Pasqualino Lalli (Petrantonio); poco avanti a destra gli alimentari di Nicoluccio Iarocci immobilizzato su una sedia a rotelle dalla polio  e della moglie Graziuccia; di fronte a sinistra della curva, la piccola bottega di falegname di Vicenzino Vaccaro (Laanaro); prima del ponte ( u pont’ d’ don Severio) le officine dei Ricciardelli. In anni successivi, appena nata la TV, ci sarà di fronte il negozio di Luigino Galasso che la sera del Giovedì metteva sull’uscio un televisore  per una piccola folla che riempiva la strada per vedere Lascia o Raddoppia di Mike Bongiorno; sotto il ponte, a sinistra,  c’era la bottega di stagnino di mast’ Romolo; andando avanti si trovava a sinistra la macelleria di Giovanni Colombo ( Giuann’ u’ mac-llar’ ) e poi a destra il negozio di scarpe di Alfredo Massarelli e subito dopo l’ emporio di Tonino Lalli particolarmente fornito in ferramenta; poco più avanti c’era Abramo Pece che faceva allora il calzolaio mentre la moglie Angiolina portava avanti una Pensione- Albergo; di fronte il ramaio: Gaetano Galasso da Agnone curvo sulla tina o su un altro oggetto, con gli occhiali da presbite sulla punta del naso ticchettava  col suo martellino a incidere ricami sul rame ( affianco alla sua bottega erano attaccati in bacheca le locandine del film in programma al cinema dei Colelall’);  qualche scalino verso colle Letizia e trovavi la sala da barba di Pettigrosso e, affianco, la bottega del “vardaio” ( U’ rusc’ a cav-zttar’”); proseguendo c’era a sinistra il Sale e Tabacchi e negozio di alimentari della madre del dottor Eremita, zia Lisa; affianco la fabbrica di gassose di Narducci  poi- dopo l ‘Ufficio delle imposte (con P-ppin’ u’ dazietor’ afflitto da una grave malattia osteoarticolare)- la bottega di Arduino Petricelli che aveva fatto il falegname poi aveva tentato di mettere su una fabbrica di ghiaccio infine faceva l’idraulico; di fronte a lui il negozio di stoffe di Saquella. A chiudere su via Marconi- quasi sulla piazza e di fronte alla sala da bigliardo del bar Giannotti – c’era la sala da barba di Nicolino Silvestri (Falasc’). Così finisce la mia rivista mentale notturna che temo incompleta ma dà l’idea di quanta vita brulicasse sulle strade di Bonefro. Numerose altre botteghe e negozi erano sparsi in altri luoghi: in piazza, in via Roma, in via XX Settembre, sul Rosello e per la Terravecchia.
     Erano gangli vitali di un paese popoloso e attivo che traeva forza e vitalità dalla vita contadina, detestata, maledetta, dura, carica di imprevisti, malretribuita ma linfa necessaria. Ne riparleremo.
    In  quelle botteghe con i loro strumenti primitivi si esercitavano l’abilità e la pazienza, si padroneggiava legno o ferro o altro con umiltà, con poco guadagno. Mentre scrivo il mio occhio va a una scatola di legno tutto inciso e lavorato con la piccola sega a traforo, foderato di velluto rosso; sul fondo c’è scritto a matita: ricordo del mio primo regalo che ho costruito per te pensandoti. Natale 1931. Francesco. Mio padre aveva 17 anni, era  discepolo nella grande bottega di Mast’ Frengisc’. Allora i giovani non compravano i regali alla fidanzata, li costruivano nelle botteghe, nel tempo libero. Erano tempi magri e bisognava arrangiarsi anche nel fare qualche regalo alla fidanzata.

Nicola Picchione

(maggio 2009)