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B O N E F R A N I . D I V E R S I

Credo di aver dato nelle mie note di ricordi su Bonefro un'idea standardizzata del bonefrano di una volta: serio, tendente al pessimismo, di poche parole, con scarsa immaginazione, poco portato alla battuta, gran lavoratore ma noioso, tirato nello spendere, maschilista. In genere siamo portati a caratterizzare un popolo in maniera molto generica secondo schematismi che ci facilitano il giudizio ma sono troppo generici. E' come se tutti i tedeschi o tutti i francesi fossero simili. Sappiamo che non è così anzi ognuno di noi è unico e irripetibile. Nemmeno i bonefrani erano tutti eguali nel carattere e nel comportamento. Perciò vorrei riequilibrare l'idea che forse ho dato ricordando due bonefrani diversi che rappresentano tanti altri.
           
            Donato abitava vicino casa mia. Sembrava eguale a tutti noi. I ragazzi delle elementari in fondo si somigliano nel fisico. Donato era come noi fisicamente ma era diverso da tutti noi. Era appena rotondetto, con i capelli castani ondulati e un viso roseo aperto al riso. Non bisticciava, non urlava. Sua nonna urlava spesso: usciva di casa sul marciapiedi- gonna lunga, ampia e scura, fazzoletto legato al capo- e urlava: "D' nataaaaa" e Donato ci lasciava e andava a casa per aiutarla in qualche faccenda. Aveva due qualità particolari: una fantasia senza freni e una straordinaria capacità di raccontare. Storie inventate ma date per vere, esagerate, allegre spumeggianti. Donato ti rasserenava, ti faceva sorridere e sognare. Era un'epoca senza TV, senza libri eccetto quello di scuola che aprivamo malvolentieri, senza fumetti che non conoscevamo ancora. L'unico a leggere    ( i libri di Salgari e il Corriere dei Piccoli) era il figlio dell'avvocato ma a quell' epoca non gli era permesso ancora di uscire e mescolarsi con noi. Dovevamo accontentarci di qualche racconto degli anziani, favole o ricordi della vita militare. Donato era tenuto in grande considerazione da noi. Parlava alla nostra fantasia, al desiderio di sognare che è in ogni ragazzo. Ci mettevamo seduti sotto la baracca della bottega del fabbro che era di fronte a quella di mio padre. La chiamavamo baracca ma era solo una tettoia in lamiera- sopravvissuta sino a qualche anno fa- che copriva lo spazio antistante la bottega recinto da una bella ringhiera in ferro battuto che ancora fa bella mostra di sé costruita dal fabbro negli anni venti a forza di martello, fuoco e grande abilità. La tettoia permetteva al maniscalco di lavorare, ferrare gli animali anche con il sole cocente o con la pioggia. La bottega rimaneva chiusa per poco tempo a mezzogiorno e la sera tardi. Là ci riunivamo quando eravamo stanchi di correre per strada o quando pioveva. Era piacevole sentire il rumore amplificato della pioggia sulla lamiera ed essere riparati. Donato riusciva non solo a inventare storie ma dava vita ai racconti modulando la voce a seconda delle scene che descriveva usandola come uno strumento ubbidiente. Sedeva sul gradino e noi intorno ad ascoltarlo. Tutta la sua persona  assecondava il racconto: il viso si adattava alle scene, gli occhi sembravano ingrandirsi o rimpicciolirsi e la bocca sembrava volesse mimare le scene: si allargava e si contraeva, si sporgeva a bocca di pesce. Le mani e la braccia sottolineavano le sensazione che le parole descrivevano. Non c'è da meravigliarsi se Donato riusciva a farci credere le cose più strane del mondo. In fondo, credo, avevamo voglia di credere ai fatti più straordinari, la nostra fantasia aveva fame. Gli bastava poco, una scintilla, per farci viaggiare. Un giorno passò un cane. Non uno di quei piccoli e magri randagi che guaivano e fuggivano appena ci vedevano, certi che li avremmo presi a sassate (la bontà dei ragazzi!) ma un cane grande, bianco, lento nell' incedere, sicuro di sé. Donato deve averlo notato. Iniziò a parlarci del suo cane che nessuno aveva mai visto. Era "nel campo", un luogo imprecisato, non si sapeva quanto lontano dal paese. Era enorme, forte come un leone ( gli occhi di Donato spalancati a esprimere meraviglia, le braccia allargate per rendere l' idea della enorme misura di quel cane). "Ragazzi, disse, davanti al mio cane non si passa. Nessuno eccetto me può passare davanti al mio cane senza lasciargli un panello di pane". Un panello del pane fatto in casa pesava 2-3 chili e doveva bastare vari giorni per una famiglia numerosa. Donato descriveva il cane minaccioso e terribile che ubbidiva solo a lui e che esigeva da tutti non un pezzo ma un intero, grande pane rotondo che le nostre mamme andavano a cuocere nel forno a paglia. Ragazzi, non si passa senza pane davanti al mio cane, non provateci. Non era la pizza di granone umile e sgradita. Il suo grande cane esigeva il pane prezioso del quale non si perdeva una mollica e che dovevamo raccogliere e baciare se cadeva. Noi non sapevamo se Donato possedesse almeno un campo ma quel racconto ci colpì. Era seduto sul gradino della bottega e noi intorno a immaginare il cane e Donato che, forse,  sognava tanto pane procurato dal suo cane immaginario. Un altro giorno uno di noi avvertì il rombo lontano di un aereo. Come facevamo sempre, ci precipitammo in strada con il naso all' insù a gara per intercettare per primi l'aereo piccolo e alto nel cielo. Poi tornammo sotto la baracca. Donato ci raccontò che il padre da militare era stato pilota. Guidava un quadrimotore e sapeva fare molte acrobazie (naturalmente mimava con le braccia e le mani le acrobazie). Si dilungò a descrivere le gesta del padre pilota. Il padre di Donato era un buon contadino che non aveva mai guidato una bicicletta ma noi rimanevamo incantati dai racconti di Donato che presto fu risucchiato dal vento del Nord.  Andò a Milano e non lo vidi per molti anni. Poi un' estate ero davanti casa e apparve Donato richiamato come me dal nostro paese. Non era alto, appena grassoccio, i capelli diradati ma sempre ondulati, sorridente. Era ancora un piacere ascoltarlo. Aveva preso un po' l'accento milanese che mescolava col bonefrano. Un bonefrano con la e aperta, non chiusa come la nostra. Mi disse che faceva il gruista. Donato non poteva essere un gruista qualunque. Era un artista della gru. Con la gru posso fare tutto quello che voglio, mi disse, posso prendere un bicchiere d'acqua e portartelo alla bocca. Donato descriveva la gru con la braccia, descriveva se stesso magico domatore di quel gigante di ferro, un pianista con le leve come tasti. Mi venne in mente Gaussone il personaggio di Primo Levi bravo a montare gru e altro ma non capace nel raccontare come Donato. Il padre finto aviatore e il cane finto leone non c'erano più ma mi parlò della figlia: "Hai visto mia figlia in TV?" mi chiese. No, non l'avevo mai vista. "Come, non hai visto Barbara campionessa italiana di ballo acrobatico?". Mi sentii quasi in colpa. Mi descrisse le acrobazie delle quali era capace Barbara descrivendole come aveva descritto quelle del padre con l'aereo. Poi mi raccontò un paio di barzellette che ancora ricordo. Non ci vedemmo più.
Qualche mese fa mi telefona Adam da Milano: ricordi Donato? E' morto...

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            Trovo poco accogliente la piazza di Bonefro. Da una parte un marciapiede con alberelli miseri e tristi messi quasi ad intralciare chi passeggia, dall'altra due gelsi in coma, aiuole trascurate, in fondo una vasca grigia, con uno zampillo stanco, quasi affossata nell' ombra degli alberi con la chioma scura tagliata geometricamente a spazzola come i capelli di una recluta a formare una specie di siepe compatta sospesa ai tronchi che non lascia passare la luce: l'ombra densa e perenne incombe sul sedile in ferro a strisce una volta verde che circonda a corona la vasca con lo schienale necessariamente rivolto all'interno. Sedili simili sono intorno alle piccole aiuole disadorne di sconfortante erba spontanea. Questi sedili circolari sono stati ideati non per unire le persone ma per isolarle: ognuno guarda davanti a sé. Chi ha di fronte la farmacia chi il bar chi la facciata slavata della chiesa di S. Nicola chi l'imbocco di via Roma e del monumento; altri guardano verso l'inizio di via XX Settembre. Una sorta di giostra bloccata. Quando non ci sono solo i soliti pochi affezionati alla piazza ma molte persone che riempiono i sedili, tendono a formarsi piccoli gruppi di 2-3 e ognuno è costretto a voltarsi ora da una parte ora dall' altra per rivolgersi al vicino. Come avrebbero fatto- mi chiedo- i cavalieri della Tavola rotonda se avessero dovuto rimanere seduti su sedie con lo schienale rivolto verso la tavola? Qualcuno preferisce rimanere in piedi per poter rivolgersi a un maggior numero di persone.
            Z' Michele era uno di quegli anziani che spesso rimaneva in piedi. Gli piaceva comunicare, raccontare storielle. Lo trovavo sempre in piazza al mio ritorno a Bonefro. Mi fermavo con la bici (che mi serve per un continuo va e vieni da casa alla piazza, in continua ricerca di non so che cosa) e lui era il primo a venirmi incontro e salutarmi. Basso, rotondetto, con un viso sorridente sotto la vecchia coppola. Z' Michele mi salutava con grande cortesia e mi aggiornava a modo suo cioè con battute bonarie e storielle nate dalla sua inesauribile fantasia. Non parlava di pensione o di politica. Era nato per inventare battute, lo aveva sempre fatto da quando lavorava nel pastificio.  Gli piaceva giocare con la sua età avanzata, una specie di civetteria visto che si portava bene gli anni. Molti hanno un conflitto con la propria età: da piccoli l'aumentano, da adulti tendono a togliersi qualche anno, da vecchi tendono magari a darsene in più per mostrare di portarseli bene. Una volta- navigava già verso i 90- mi disse quasi a bassa voce con l'aria di chi rivela un segreto: "Sai che ho smesso di andare in chiesa". Non mi risultava che fosse un assiduo della chiesa ma finsi di meravigliarmene e gliene chiesi il motivo: "Perché- mi rispose- se Gesucristo mi vede si ricorda di me, si meraviglia e mi chiede: tu sei ancora qui?  e mi fa l'atto di richiamo. Io- concluse- spero che continui a non ricordarsi di me perciò non mi faccio vedere da lui". Giocava anche con le inevitabili deficienze della sua età. Fingendo una serietà assoluta, mi disse: "Sai che mi è successo stamattina? Eravamo a letto e mia moglie fa: ora mi alzo. Io non ho aperto bocca. Dopo un po' lei ripete: mi debbo proprio alzare. Aspetta qualche minuto, si mette seduta e ripete: ora mi alzo sul serio. Continuava a non alzarsi. Allora, concluse z' Michele, non mi sono trattenuto e le ho detto: guarda, se vuoi alzarti deciditi perché ormai con me non c'è più niente da fare". Gli amici lo prendevano in giro, conoscevano le sue storielle. Qualcuno gli chiedeva: ma che avrai in testa? Z' Michele non aspettava altro: si toglieva la coppola e ne mostrava il contenuto:" Ecco, che cosa ho in testa" diceva mostrando la figura di una giovane nuda attaccata al fodero della coppola. Ogni volta tirava dalla tasca una caramellina e me la regalava. E' alla menta glaciale, mi assicurava. Qualche anno fa non lo trovai in piazza. Non scende più, mi dicono gli amici. Vado a trovarlo a casa. Non è più quello di prima. Ci vede poco, non ha forza di muoversi, non dice più battute. Penso che non si muore di colpo ma un poco per volta: si riducono i sensi- la vista, l'udito, l'olfatto- come per avviarsi, allontanarsi dal mondo, prepararsi a restituire quella materia che la natura ci ha prestato solo per un tempo limitato. Z' Michele si stava spegnendo. L'anno successivo non lo trovai più. Gli era stato fatto l'atto di richiamo.

             Piccoli ricordi di piccoli personaggi, fili esili di un arazzo di un paese svuotato, svogliato, rassegnato che pure non si riesce a dimenticare.

 

Nicola Picchione

2013