UNA CHIAMATA URGENTE

Giovanni non era venuto per farsi visitare ma per chiedermi aiuto.
   "Mia moglie ha quarant' anni e abbiamo già figli grandi. E' rimasta incinta. Dammi qualcosa per farla abortire". I miei paesani erano persuasi che il medico avesse grandi poteri e pillole per tutto. La richiesta per abortire non era infrequente. Di solito si trattava solo di ritardi mestruali : bastava prescrivere un farmaco per ristabilire il ciclo. Se non funzionava, pazienza non sempre i risultati sono garantiti. Quella volta volli essere chiaro. Gli risposi : "Chiedimi tutto ma non questo. Il mio mestiere mi impone di salvare non di eliminare la vita". Se ne andò sconsolato. Passarono una quindicina di giorni. Era metà Gennaio, era caduta molta neve. Giovanni giunse in ambulatorio col fiato grosso.  Entrò senza rispettare il suo turno. Poche persone erano intorno alla stufa a gas. D'inverno i più preferivano chiamarmi e farsi visitare a casa. Mi compensavano con un bicchierino: poverino, andare in giro con questo freddo. Per fortuna quei bicchierini erano molto piccoli.
   Il viso di Giovanni, perennemente scuro, sembrava infiammato. "Corri, mia moglie sta molto male ha perso tanto sangue. Ha avuto un aborto". Avevo una borsa già pronta per queste evenienze. Maria, la moglie di  Giovanni, doveva stare veramente male per chiamarmi in pieno giorno. Di solito aspettavano dopo la mezzanotte per questo genere di interventi, quando nessuno mi vedeva entrare in casa. Avevo inutilmente tentato di far capire  che certe cose andavano fatte in ospedale e non a casa. Le tradizioni possono oltrepassare anche le buone ragioni.
    La casa di Giovanni era composta di una stanza al piano terreno e di una al piano superiore. Salii le scale interne di legno. Da una parte era il cassone del grano, affianco immobilizzata in un lettino la vecchia madre di  Giovanni. Maria era nel letto matrimoniale vicino alla finestra. Era bianca come il lenzuolo che lasciava intravedere solo il suo viso. Certamente aveva cominciato a perdere sangue da molto tempo. Il suo viso mi sembrava molto più scavato di quanto non lo ricordassi ma l’avevo vista poche volte. Le donne andavano dal medico solo quando stavano molto male ed era spesso un problema visitarle, restie com’ erano a spogliarsi.
   Non riuscii a misurarle la pressione e non sentii il polso. Il respiro non si avvertiva. La bocca era semiaperta. La mia mano toccò una fronte gelida. Non dava segni di vita.
  "E' morta !",  urlò la cognata ad un'altra donna ai piedi del letto. Cominciarono a piangere. Il fonendoscopio, però, mi mandò un battito veloce e appena percettibile del cuore, un leggero veloce frullìo di ali di cardellino che lottava per non fermarsi. Come se stesse per prendere il volo definitivo. Dissi alle donne di smettere di piangere: Maria era ancora viva.
      Che dovevo fare? Ero quasi alle prime armi, un medico di ventisette anni. Quando mi chiamavano per queste faccende cercavo di darmi e dare sicurezza con qualche battuta spiritosa ma dentro tremavo di paura. Forse era stata proprio la paura a evitare sino a quel giorno errori nelle mie manovre. Don Peppe  mi aveva raccontato di un anziano medico di un paese vicino che si vantava di eseguire con rapidità i raschiamenti ma un giorno si era reso conto di aver perforato l'utero solo dopo aver estratto una metrata  di intestino. La donna non era morta ma aveva dovuto subìre parecchi interventi chirurgici e il medico ci aveva rimesso una fortuna. Ogni volta che mi chiamavano per un problema ostetrico mi tornava alla mente questo racconto.
    Maria appariva in fin di vita: era probabile che finisse di vivere durante o poco dopo il mio intervento. Qualcuno avrebbe dato la colpa a me se fosse morta ma non potevo abbandonarla senza tentare di salvarla. Bisognava interrompere l'emorragia e trasfonderle sangue. Era impossibile mandarla in ospedale: con la strada coperta di neve sarebbe stato difficile trovare qualcuno disposto a trasportarla e comunque Maria non avrebbe potuto affrontare il viaggio. Avrebbe perso anche quel poco di sangue che le rimaneva. In quei casi non sono possibili tamponamenti, bisogna fare il raschiamento. Rapido e completo. Feci un piano mentre le donne mettevano a bollire i miei ferri e preparavano il grande tavolo con lenzuola di bucato. Non conoscevo il gruppo di sangue di Maria né quello degli eventuali donatori ma senza trasfusione qualsiasi tentativo sarebbe stato inutile. Dissi a Giovanni di radunare nella stanza in basso quanti più donatori possibile. Chiamai a Campobasso il medico padrone di un  laboratorio di analisi : gli chiesi di venire a determinare i gruppi sanguigni. "Tu sei matto- mi rispose- con questa neve non mi sposto". Tentai inutilmente di rassicurarlo che lo spazzaneve era passato. Per le strade di montagna è facile che il vento ributti la neve sulla strada, mi rispose e mi salutò. Pensai di chiamare un collega dell’ ospedale di Larino sperando che ci fosse meno neve. Era un chirurgo molto bravo e disponibile, un sardo generoso. Mi disse che sarebbe venuto ma non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato. Trovai la cucina al piano terreno piena di persone disposte a donare il sangue. In farmacia avevo trovato un flacone di succedaneo del plasma. Avevo preso flaconi di soluzione glucosata. Meglio di niente. Maria continuava ad essere collassata, fredda, priva di coscienza. La vecchia madre di Giovanni balbettava qualcosa, non capivo se si rendeva conto di ciò che stava accadendo e pregasse o borbottasse qualcos'altro. Mi sarebbe piaciuto avere vicino l'anziano chirurgo sardo. Era  bravo anche in ostetricia ed in ospedale eseguiva i raschiamenti ( nel piccolo ospedale esistevano allora solo il reparto di medicina e quello di chirurgia generale). Operare da solo, con pochi mezzi e molti rischi è molto diverso che farlo in Ospedale. Quando i ferri furono sterilizzati e li ebbi disposti su un piccolo tavolo coperto di garze sterili che fungeva da piccolo tavolo operatorio, feci mettere Maria sul grande tavolo. Le avevo trasfuso vari flaconi di liquidi ma il polso era sempre non percepibile e lei era priva di coscienza. Il collo dell'utero presentava una vistosa lacerazione prodotta  con qualche ferro da chi aveva procurato l'aborto. Cercai di essere rapido nelle manovre. Mi ripetevo le parole che mi dicevo altre volte: devi essere rapido ma non frettoloso, devi essere delicato ma deciso, devi ripulire ogni punto se vuoi evitare che continui l'emorragia. Lo stato di incoscienza di Maria evitava i suoi lamenti ma mi privava di un utile allarme. Provare dolore non è un male, è un utile espediente di avvertimento della natura.  Il chirurgo arrivò che avevo finito. Gli mostrai la ferita del collo dell'utero ( la lampada a stelo che avevo fatto prendere in ambulatorio illuminava molto bene il campo). "Dovrei sporgere denuncia contro ignoti" gli mormorai. " Lascia perdere, non hai visto niente", mi consigliò. Dopo il secondo flacone di sangue (ha lo stesso gruppo mio, pensai, A positivo) la pressione del sangue cominciò ad essere misurabile. Sul viso di Maria iniziò a riapparire il colorito della vita.
   Quel giorno avemmo fortuna, Maria ed io. Credo che anche un’altra persona a me sconosciuta  in paese ebbe fortuna e forse stava pregando a casa sua che tutto finisse bene.
   Maria aveva la fibra forte da contadina. Si riprese in poco tempo.
   L’ ho incontrata raramente, in seguito quando tornavo a Bonefro. Non mi salutava, abbassava gli occhi, fingeva di non vedermi. Anch’io fingevo di non vederla. Forse entrambi ripensavamo a quel giorno tremendo e alla buona sorte che aiutò lei e me. Se fossi credente, dovrei ammettere che il mio angelo custode guidò le mie mani e il suo si prostrò davanti a Dio implorando di salvarla. E la morte si fermò davanti a un tavolo da cucina coperto di bianche lenzuola macchiate di sangue.
   Mi sarebbe piaciuto, quando tornavo, salutarla, stringerle la mano. Non sarebbe stato necessario parlare di quel giorno freddo di un lontano inverno. Sarebbe bastata la stretta di mano, un semplice saluto. 
   Un passato molto lontano. Nuove leggi, nuova mentalità, nuovi mezzi.
   Questi ricordi mi indicano quanta strada sia stata percorsa nella Sanità, cioè nell’ organizzazione dell’ assistenza medica e quanto sia modificata la mentalità. Forse molte cose positive si sono perse per strada ma si sono affermati diritti importanti che aiutano proprio i più deboli e indifesi. Le donne di allora, soprattutto in paesi come Bonefro, erano spesso vittime di soprusi e di diritti negati, sovraccariche di doveri e di un lavoro pesante, infinito, non apprezzato, superiore complessivamente a quello dell’uomo. La maternità poteva essere un rischio. Ogni volta che ripenso a quelle donne, soprattutto le contadine, provo una grande pena: se fossi credente, le immaginerei in un angolo di Paradiso tutto per loro.

PS- Tutto quanto racconto è assolutamente vero ma nomi e ogni circostanza che potrebbero anche solo far sospettare di individuare i personaggi sono stati modificati, anche se sono passati molti anni e quelle persone sono in gran parte scomparse. Credo che la cronaca di alcuni fatti dia l’idea dell’ ambiente del nostro paese com’ era molti anni fa meglio di tante analisi.

Nicola Picchione