BREVE RACCONTO DI NICOLA PICCHIONE  
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I CONTADINI DI BONEFRO

Ricordi e impressioni di un tempo lontano
 

   

            Andavano lentamente, appesantiti dalla fatica. Erano seri, senza sorrisi. I loro pensieri avevano mille anni, passavano quasi immutati da padre in figlio come pesante eredità, accorciavano il loro sonno e la loro vita. Raramente si permettevano il lusso di esprimere felicità. Bestemmiavano e le bestemmie salivano al cielo come preghiere. Se la prendevano col padreterno, con i santi, con la moglie, con i figli, con l'asino. Erano suoi padroni la terra col suo peso fangoso e il cielo capriccioso, sordo ai desideri del contadino. Povera e stanca la terra, sfruttata dalle semine continue, alimentata da poco costoso concime, dilavata dalle piogge, continuamente rivoltata come la stoffa dei cappotti.
           Una lotta senza fine, quella del contadino. Contro il tempo, contro le innumerevoli vite vegetali e animali che gli contendono nei campi i frutti della sua fatica. Contro il commerciante che passava tra le mani con aria sprezzante il prodotto della sua fatica  minacciando un prezzo troppo basso. Una scommessa su una natura avara. Una lotta in solitudine.
           Non appariva tenera la natura col contadino e il contadino non era tenero con la natura. Erano, però, legati l'uno all'altra. La natura con la terra dava da mangiare al contadino e il contadino la curava. Un odio-amore dal quale nasceva il pane quotidiano per tutti. Dalla terra, dal letame nascono fiori- ha detto qualcuno- nulla nasce dai diamanti.  Non c'era brandello di terreno- scosceso, scomodo, lontano, cretoso, pietroso- che non fosse coltivato. Ovunque la mano dell' uomo aiutata da pochi attrezzi modellava, scavava fossi e canali per drenare l'acqua dei temporali, scavava pozzi, eliminava sterpaglie, piantava alberi che curava, potava, innestava; solcava la terra con l'aratro, la rivoltava con la zappa. La campagna appariva ovunque ordinata, pulita, addomesticata. Non aveva segreti la natura per il contadino che dava un nome ad ogni colle, ad ogni zona, che tracciava sentieri che anche l'asino imparava a riconoscere. Piccoli campi tramandati da padre in figlio dove non mancava un albero che desse frutti e ombra l'estate per riposare a metà della giornata. Peri, meli, fichi, ciliegi in varietà antiche, ognuna col suo nome, ognuna col suo pregio, con i suoi frutti piccoli, macchiati ma profumati e saporosi. Piccole vigne curate con passione e con sapienza, qualche piccolo pergolato vicino al pozzo. Non aveva letto libri il contadino ma aveva imparato sin da piccolo a conoscere le piante, la terra, i semi, capire come sarebbe cambiato il tempo dai venti e dalle nuvole. Aveva imparato la saggezza della natura, a convivere con essa, a rispettarla per poterne cogliere i frutti.
          Sembravano allontanati gli antichi padroni che avevano dominato i loro padri. Ora- dopo la guerra- c'era chi andava predicando che pane e lavoro erano un diritto, che la terra era dei contadini, che a loro bisognava riconsegnarla. Non più il dono di un dio che troppo spesso sembrava generoso con il potere e distoglieva lo sguardo dal povero. Si sarebbero alleggeriti dei padroni del passato, il signore dal quale dipendeva il lavoro del bracciante e dell'affittuario, cui non potevi negare di portare la legna a casa come fosse un onore. Chi credeva a queste promesse e chi diffidava, il mondo è fatto di promesse non mantenute. Non si fidava il contadino eppure sperava. Ne parlava con gli amici ma a bassa voce. Intanto continuava la fatica immensa della sopravvivenza.
     

   L'estate gli asciugava la carne, gli solcava la pelle, gli levava il sonno. Se possedeva la terra, si comportava come i padroni:  andava in piazza che era ancora buio e raccattava una paranza di mietitori che erano venuti da lontano e dormivano sulle pietre, una vecchia giacca sotto il capo. Il tempo di mettersi in piedi ed avviarsi ai campi con la falce su una spalla e le scarpe da non consumare sull' altra. Il sole, sorgendo, li vedeva già al lavoro trafiggendoli nel suo viaggio celeste che sembrava non finire mai. Chi possedeva poca terra da non permettersi salariati si portava dietro la  famiglia, la moglie già stanca dei lavori di casa e i figli anche se piccoli purché una  povertà estrema  non li avesse sbattuti in una lontana masseria  di un piccolo proprietario: andare a padrone per pascere pecore e maiali in cambio di poche lire l'anno. La scuola: un lusso per questi sottoproletari, i più poveri tra poveri ma i contadini del dopoguerra avevano appreso l'importanza della scuola che libera da tante schiavitù. L ' analfabetismo  si ridusse notevolmente.

            Chi non aveva nemmeno mezzo ettaro di terra offriva le sue braccia, bracciante in cerca di lavoro per poche lire. Si contavano i giorni di lavoro non le ore lavorate, tante, i limiti dati solo dalla luce del giorno.
            L' estate dava il conto finale del lavoro di un anno, i pochi quintali di grano per ettaro, se andava bene, se il maltempo non concedeva nemmeno quanto bastava per mangiare, per la successiva semina e per pagare l'affitto se il campo non era di proprietà. Bisognava fare presto, profittare del tempo buono prima che la pioggia rovinasse il raccolto. Mietere dall'alba al tramonto per poi trebbiare, portare il grano a casa e quindi bruciare  le stoppie, arare e preparare la terra per la semina. Mietere: un lavoro di squadra. Quattro mietitori con la falce affilata e lucente,  con le dita della mano  protette da  mozziconi di canna;  il legante pronto a raccogliere le spighe tagliate; formare i covoni e poi gli acchi.  Dopo, portare il grano sull'aia in attesa della trebbiatrice o- se il raccolto era modesto- trebbiare con l'asino che, gli occhi bendati per evitare vertigini, gira gira trasportando la grossa pietra che macina il grano. Poi aspettare la notte fonda quando si alza un filo di vento per ventilare con la pala e separare il grano dalla pula. Il contadino sa già come è andato il raccolto: gli basta un'occhiata prima della mietitura per prevedere se avrà 6-8 quintali da un ettaro oppure 12-13. Beati quelli che hanno la terra fertile a Melanico o a Malafede, non importa se solo in affitto, non importa se mietere in quel fosso ardente che è il Coverello c'è da bruciarsi il capo e la schiena, se l'acqua del grande pozzo salmastro in mezzo al tratturo è calda e amara; non importa se poi la notte serve non per riposare ma per trasportare il grano al paese. Non importa nemmeno se si corre il rischio di prendersi la malaria.
            Il contadino d'estate era come l'ape a primavera: un continuo andare e venire. Una lunga fila di persone e di bestie che lasciava il paese all'alba, un ritmo lento di scarpe e di zoccoli, la danza premonitrice del lavoro nel silenzio dell' aria ancora fresca ma che presto si scalderà. Una lunga fila al ritorno, dopo la sosta alla fontana con l'abbeveratoio per le bestie assetate. E al ritorno c'è da rigovernare  l'asino o il mulo o il cavallo, i polli, il maiale mentre la moglie accende il fuoco e  prepara  la minestra. La moglie del contadino: una condanna senza limiti e senza colpe se non quella della povertà. Un doppio lavoro non riconosciuto, non apprezzato, non pagato. Semplicemente dovuto. Un lavoro più prolungato di quello del marito, il dopocena passato a rigovernare la casa e preparare il pasto da portare al campo il giorno dopo. Semplicemente dovuto, come fare figli- tanti- allevarli allattandoli a lungo, portandoli al campo e mettendoli all' ombra di un albero, calmandoli- se necessario- col decotto di papavero, crescendoli con la pappa di pane e poi con la pizza di granturco, racimolando qualche lira con la vendita di qualche uovo per le piccole inevitabili spese. Un lavoro, quello delle donne dei contadini, che inizia dalla fanciullezza imparando presto a sfaccendare a casa, lavare, accudire ai più piccoli; che continua da grande quando dovrebbero iniziare i sogni e le speranze, quando cominci a sentirti prigioniera, non puoi uscire con le amiche e puoi solo affacciarti alla finestra e guardare qualche giovanotto o sperare di vederlo passare  quando vai alla fontana con la tina dell' acqua. Una gioventù senza sogni, in attesa non di scegliere ma di essere scelta, col futuro già segnato, presto interrotta dal matrimonio col quale cambi padrone, dal padre al marito, senza mutare la vita.

 

            L' autunno coglieva spesso il contadino di sorpresa con la pioggia e il maltempo quando  la terra non era ancora arata per il protrarsi dei lavori estivi, col granturco da raccogliere e poi sgranare e mettere ad asciugare sui teli lungo i marciapiedi davanti alle case. La pioggia, amica e nemica, a volte dispettosa che ti inzuppa sino alle ossa se non trovi un pagliaio dove riparare, che ti fa ritardare l'aratura e la semina. E' faticoso arare se la terra non è ben asciutta. Il vomere si carica di fango, devi pulirlo con la lunga verga; la bestia si stanca ed è inutile sibilare sulle sue orecchie con lo staffile. Anche per le bestie del contadino la vita era dura. Costava fatica enorme la biada che mangiava, sudore e improperi: perché era su di lui (anche su di lui!) che il contadino sfogava la sua rabbia. L'autunno del contadino non era meno carico di lavoro dell'estate. Arare, seminare non bastava. C' era l' uva della vigna. Raccoglierla, portarla a torchiare, fare il vino. E poi gli olivi.
            Piccole le vigne di Bonefro, quanto bastava per il vino da consumare in casa, tanto le donne non ne bevevano. Il pudore antico di berlo aveva castrato in loro il piacere di gustarlo.
            Piccoli gli uliveti che davano poco olio e cattivo, inacidito dalla lunga attesa prima di portare le olive al frantoio. Tanto meglio, se ne userà poco; un lusso che raramente cedeva il passo al lardo e alla sugna.

            L' inverno segnava una tregua al lavoro che rallentava ma non finiva. Bisognava accudire agli animali. L'asino era un patrimonio, andare alla fiera a ricomprarlo era una spesa intollerabile. Occorreva curarlo, portarlo dal maniscalco per ferrarlo, portarlo ogni tanto in campagna anche d' inverno perché l' ozio lo viziava. Bisognava ripulire la stalla che era parte della casa e che ospitava attrezzi, botte, cassone del grano, polli e maiale. Da quel locale al piano terreno salivano per la scala interna effluvi che un cittadino non avrebbe  sopportato ma alle quali il contadino era abituato. Egli stesso si portava addosso un odore ineliminabile di sudore  entrato nella pelle. I pantaloni quasi sempre rattoppati, la coppola o il cappello avevano assorbito il sudore generato dalla fatica, penetrato nelle ossa e negli abiti.
           L' inverno permetteva di ritrovarsi con gli amici, di andare in bottega dall' amico artigiano e scambiare quattro chiacchiere o la sera stare intorno al fuoco abbrustolire i ceci e bere un bicchiere con gli amici confessando le speranze e le paure o raccontando ai ragazzi di quei mesi ormai lontani passati a fare il militare in Altitalia dove la terra era fertile, facile da coltivare e si facevano  due raccolti l'anno, dove le donne erano alte, andavano a lavorare in bicicletta e la domenica andavano anche a ballare. Donne non serie come le nostre.
          D'inverno la casa è fredda, il calore del fuoco se ne sale per il camino; il letto ha mantenuto il calore del corpo e quello della brace messa dentro il prete di legno tra le lenzuola. Si potrebbe rimanere un pò di più sotto le coperte  ma l' abitudine costringe il contadino ad alzarsi presto anche se non è necessario.
         Il lavoro rallenta ma non manca e c'è il maiale da uccidere. Una buona occasione per stare insieme fra amici e festeggiare l'occasione.
        Presto arriva la Primavera, bisogna zappare la vigna, potare poi seminare il granturco. Il lavoro si intensifica sempre più.

            Faticosa la vita del contadino. Non ci sono ferie. Non c'è certezza  se non quella che devi pagare l'affitto al padrone del campo se non è tuo, l'abbonamento al maniscalco, al medico, al barbiere, il debito col droghiere che ha segnato su un quaderno le piccole spese (il tabacco, il sale, lo zucchero). E poi tua moglie ti ripete che bisogna pensare alla figlia, prepararle un pò per volta il corredo. Un peso le figlie che devi sorvegliare perché se non sono serie non trovano marito; che ti aiutano poco nei campi; alle quali devi dare una dote; che non porteranno ai tuoi  nipoti il tuo nome.
            Non era tragica la vita del contadino. Sapeva accontentarsi. Pensava che quello era il suo inevitabile destino ma sapeva anche che tante cose possono essere migliorate come mandare a scuola i figli perché l'ignoranza è la vera disgrazia e la vera debolezza. Aveva frequentato poche scuole il contadino ma si portava dietro una antica raffinata cultura sia pure chiusa in un guscio rozzo. Il suo lavoro solitario gli impediva di sviluppare una coscienza di classe ( e, d'altra parte, contro chi avrebbe fatto sciopero?) ma egli viveva in una comunità compatta, unita, nella quale gioie e disgrazie legavano gli individui. Non si chiudeva in casa quando non lavorava, si incontrava con gli amici, partecipava alla vita sociale, scambiava idee, si informava. Non aveva senso degli affari, sapeva che tutto ciò che aveva o poteva avere era frutto di fatica, che non poteva spendere più di ciò che aveva ed anzi doveva cercare di risparmiare  perché il futuro era incerto. Soprattutto la moglie sapeva risparmiare, riusciva anche a mettere da parte qualche lira di nascosto per comprare una gonna alla giovane figlia. Era rassegnata la moglie del contadino, non era arrabbiata. Sapeva che quello era il suo destino e se il marito qualche volta beveva di troppo e diventava litigioso, sapeva consolarsi: ce ne erano di peggio. Sapeva mettere insieme lavoro e rapporti con le amiche. Poteva prestare giornate di lavoro nei campi per poi riaverle, andava con le altre al ruscello o al forno o al mulino, si faceva pettinare e raccogliere la treccia a crocchia. Aveva addosso gli occhi di tutti, della suocera, delle vicine, del marito. Controllavano se la casa era in ordine, se i figli erano puliti, se le toppe ai pantaloni erano state cucite con perizia. Ne valutavano anche la capacità di piangere e recitare le doti di un familiare morto, finanche le qualità di un marito senza qualità. E ti meravigliavi se passando per strada d'estate da una finestra aperta usciva una voce argentina che cantava ma il più delle volte era una ninna nanna per addormentare il bambino.

            Così andava avanti la vita del contadino. Invecchiava presto, bruciato dal sole, infradiciato dalla pioggia, curvato dalla zappa, le mani callose rattrappite dal lavoro. Continuava a lavorare sino a quando poteva. Poi- se sopravviveva- passava la vecchiaia davanti casa d'estate salutato dai passanti, col bastone tra le gambe e un vecchio cappello in testa; vicino al fuoco d'inverno a raccontare un passato che a nessuno interessava. C'era, però, un profondo rispetto per gli anziani, i loro consigli erano ascoltati, la loro esperienza ritenuta utile.
           
            Sembrava immutabile quel mondo, chiuso in confini ristretti e in antiche regole  di convivenza. La povertà più che la virtù  dettava i comportamenti: la disciplina, il rispetto reciproco e la gerarchia incontrastata erano figli del bisogno e di antiche tramandate regole sociali; la genuinità dei prodotti era dovuta all' assenza di mezzi e metodi di sofisticazione; il rispetto della natura derivava dalla necessità di mantenerla fertile. L'ecologia del contadino più che una scelta derivava dalla necessità e dei limitati mezzi di trasformazione. Dal bisogno, dalle limitate risorse nasceva il senso del risparmio. Si imparava da piccoli come si imparava a lavorare, a rispettare gli anziani e le regole della comunità. Si imparava a fare un uso parsimonioso  anche della libertà. Il senso del dovere superava quello dei diritti.
            Il rispetto delle regole non era sentito come un peso, era considerato il modello comportamentale che teneva unita la comunità. Le apparenze erano anche sostanza.
            Sembrava davvero non cambiare quel mondo di contadini votati alla sopravvivenza chiuso tra le colline, ciclico come le stagioni, protetto da una tradizione intransigente, rassegnato al suo destino, il paese  con le sue vecchie case umide, con i traìni sui marciapiedi e le galline per strada. Invece caddero le mura invisibili dell' isolamento, si aprirono i confini del mondo.  Avvenne ciò che è sempre avvenuto nella storia umana. I monti e il mare si aprono al cammino degli uomini ed essi si mettono in marcia. Il bisogno materiale e più ancora quello che proviene dal cuore e dall'animo mette in moto le persone. Basta che qualcuno si muova per avviare la valanga. Il Lecce-Milano si caricò di contadini e braccianti e delle loro valigie di cartone. Pieno come un carro bestiame li portò al Nord: a Milano, a Torino, in Germania, in Svizzera, in Belgio a intossicarsi di carbone e crepare.  Terroni malvisti ma che riuscirono a tenere duro e vinsero. Con la tenacia che si portavano dietro, con la voglia di cambiare, con i calli entrati nella loro anima. La fabbrica con le sue luci artificiali e la catena di montaggio al posto del sole e della pioggia ma con il posto ritenuto fisso, il futuro sperato sicuro.  Indossarono la tuta anche se non diventarono del tutto operai, rimasero a lungo  contadini prestati alla fabbrica pronti a usare le ferie per tornare a coltivare il loro campo. Il paese si svuotò. Gli asini, i muli, i cavalli scomparvero e le stalle divennero garage. Chi rimase si adeguò ai tempi, si attrezzò, divenne agricoltore.
            Il paese si arricchì, come possono arricchirsi i poveri abituati a usare poco e a risparmiare, ma si impoverì di forze giovani e volenterose. Nessuno pensò che quella trasmigrazione avrebbe reso Bonefro e tanti altri paesi del Sud vuoti gusci circondati da campagne abbandonate. Eternamente misera la vita del contadino. I frutti del suo lavoro che ci mantengono in vita alimentandoci sembrano quasi un regalo e non prodotti da una fatica dura. Bonefro e il Sud furono depredati delle loro risorse umane. La vocazione all' agricoltura, antica, facilitata dal clima fu soffocata piuttosto che apprezzata, incentivata, aiutata, modernizzata. Lo scambio passivo voto-false pensioni di invalidità contribuì alla emarginazione e all' assoggettamento. Rimase la diffidenza verso lo Stato. Chi andò in fabbrica aggiunse la diffidenza verso il padrone.
            Sempre più i piccoli campi furono abbandonati, gli alberi trascurati. L' operosità del contadino si tramutò in quella operaia delle fabbriche che contribuì a fare l' Italia ricca sino ad una opulenza che sembrava crescere senza limiti ma che fu illusoria, traditrice. In pochi anni quella società durata secoli scomparve.
             Non c'è spazio né motivo per la nostalgia. Quel modello di vita fortunatamente fu travolto dalla Storia ma ha diritto di memoria. Per misurare il progresso compiuto e gli errori commessi da uno Stato miope, per onorare il ricordo di chi ci ha preceduto, per non dimenticare che il benessere  proviene dal lavoro, dal rispetto delle regole. Per imparare che occorre  saper pensare al futuro e che non esistono mai certezze. Per essere grati a quelle generazioni cariche di doveri e povere di diritti di avere edificato un Paese solido, laborioso che poi fu saccheggiato. Per ricordarsi che la crescita economica non è eterna; che dai campi proviene il nostro cibo quotidiano.
          Sembra destino dell' uomo conquistare a fatica il benessere e poi farsene sommergere, non riuscire a dominarlo sino a disperderlo, sperperarlo. Quel mondo fatto di lavoro e di sacrifici, di dignità associata a concretezza, capace di far convivere passato presente e futuro fu spazzato via, sostituito da una modernità che sembrava regalare benessere a tutti con poca fatica.
         Vinse la favola. Per poco. Cominciò un lento declino che- come sempre- colpisce i più deboli. La vita dei campi continuò (continua) ad essere la più dura, la meno retribuita, soggetta al commercio, alla distribuzione, alle decisioni di pochi che la umiliano e la ricattano.
Quel mondo forse durò troppo prima di essere spazzato via. La falce, la zappa, l'aratro erano simboli di una economia arretrata. Inutile rimpiangere i cibi genuini che non bastavano, un modello sociale repressivo e autoritario. Ci sarebbe da chiedersi, tuttavia, quanta vera libertà abbiamo conquistato, quanta sicurezza, quanta giustizia sociale, quanto ci costa il benessere economico, che futuro ci aspetta.
Ma questa è un'altra storia.

Dr.Nicola Picchione

 

 



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