BONEFRO COMERAVAMO a cura di Nicola Picchione
 
     
 
LA VITA A BONEFRO NEL DOPOGUERRA

       

1- Considerazioni generali

          I veri tradimenti della memoria non sono i suoi vuoti  ma le deformazioni che la ingannano. Essa  addolcisce, carica di nostalgia i ricordi. La memoria non è mai fedele, nemmeno quando sembra esserlo. E’ parziale, è deformante, canta come una sirena. E’ come il primo amore che si fissa dentro come un sogno. Bisogna resistere agli inviti traditori della memoria. Cerco di farlo, parlando di  Bonefro del passato, anche perché so che ricordando Bonefro parlo di tanti paesi del Sud carichi di tradizioni, di piccole storie che si somigliano. Ogni paese è diverso dagli altri ma un po’ somigliano tutti, come gli uomini anche se sembrano tanto diversi tra loro e addirittura hanno almeno il 90 per cento dei geni in comune con gli altri animali compresi i vermi.       

          Quelli della mia generazione hanno avuto un particolare privilegio, soprattutto chi è nato in un paese come Bonefro. Come mai prima, abbiamo assistito al travolgimento di un passato che sembrava immutabile e si è trasformato in pochi anni quasi magicamente in un presente inimmaginabile, sorprendente, incredibile se non fosse per la capacità dell’uomo di assuefarsi anche all’incredibile. Quelli della mia generazione hanno dovuto fare uno sforzo mai fatto prima per adattarsi oltre ai mutamenti che hanno migliorato condizioni economiche ed ambientali anche a quelli che hanno sovvertito regole ritenute quasi intoccabili.
           Chi è nato molto tempo dopo inorridisce di fronte a certe immagini della vita nei Paesi poveri o del lavoro minorile nelle zone depresse del mondo. Eppure basta uno sguardo al nostro recente passato per rendersi conto che i suoi nonni hanno vissuto, lavorato – o almeno visto lavorare- in condizioni simili e che ciò che oggi sembra necessario era, allora, un lusso per pochi. Altre volte si pensa al passato come un mondo semplice, onesto, carico di ideali. Bisogna ricordare con realismo. Non si tratta di un recupero nostalgico della memoria né di una condanna di quei tempi. E’ bene non illudersi: ogni tempo ha i suoi valori e i suoi limiti, le sue regole, i suoi adattamenti. Non cambiano l‘intelligenza e la stupidità, l’onesta o la disonestà. Cambiano le condizioni. Ricordare può aiutare a capire  per apprezzare il benessere attuale e anche per essere preparati a qualche sacrificio.
          Con varie note sulla vita a Bonefro nel dopoguerra che mi propongo di scrivere in appunti  senza regolarità, proverò a  richiamare quegli aspetti di un passato che sembra lontano di secoli ed invece è vicino. Gli anziani mi perdoneranno se riferisco situazioni per loro ovvie e per le inevitabili lacune. E’ bene però che i giovani sappiano (ammesso che ce ne sia qualcuno interessato a queste note). Ora limitiamoci a qualche considerazione generale introduttiva.

          La nostra infanzia trascorreva in un ambiente ancora attaccato a un passato remoto che mutava poco con le generazioni. Abbiamo visto la strada affollata di carri agricoli ( i train’), di animali da soma e respirato l’aria non inquinata ma pure essa affollata: di insetti (soprattutto mosche), di uccelli, di odori non sempre gradevoli. Gli attrezzi erano quelli di tanti secoli prima: la falce, l’aratro, la sega a mano. I ragazzi cacciavano gli uccelli con la fionda che si costruivano con la forcella di un ramo e con elastici da vecchie camere d’aria di auto (gli stessi che molte donne adoperavano per reggere le loro grosse calze nere) e fabbricavano da sé anche  i pochi giocattoli. Le ragazze tenevano tra le braccia bambole (a pup’jatt’) che facevano con le pezze. Per poco tempo: dovevano sin da piccole imparare ad essere buone casalinghe, prepararsi ad essere mogli ubbidienti. I più vecchi raccontavano ancora del “legno” per indicare la nave. Per comunicare lontano si usava la posta e nelle ricorrenze particolari il telegrafo. Le zanzare diffondevano ancora la malaria prima che la vincesse il DDT – benefattore ingiustamente condannato- e le mamme cercavano sul capo dei ragazzi i pidocchi che poi schiacciavano con le unghie. L’ igiene era del tutto relativa, nessuno aveva il bagno e l’acqua in casa e per lavare la biancheria le donne andavano al ruscello. Natalia Ginzburg ricorda nel suo Lessico  famigliare che quando durante la guerra andò a riparare con la madre in un paesino d’ Abruzzo il padre << in ogni lettera raccomandava di lavare molto i bambini trattandosi di un paese primitivo e senza norme igieniche; e una donna diceva con aria disgustata quando vedeva che lavavamo i bambini: “Sono puliti come l’oro. Li stanno sempre a lavà” >>.
              Mangiare a sufficienza era per molti un problema. La maggior parte delle case non aveva gabinetto e ho ancora in mente la scena di una anziana dirimpettaia che assicuratasi della strada deserta la sera tardi vuotava l’orinale dalla finestra. Bonefro aveva il privilegio di sorgenti d’acqua ma ricordo alcuni di S. Croce che venivano a rifornirsi al Ciciliano con botticelle. Non solo erano rare le auto e le moto, anche le biciclette erano per pochi. Molti ragazzi per godere l’ebbrezza di una breve corsa andavano da Pelillo e ne affittavano una,  spesso pesante e vecchia (nu zuffiòn’) per un quarto d’ora o mezz’ora. Pelillo insisteva sulla puntualità ma poi non guardava l’orologio e continuava a lavorare di spago e lesina ( a sugghie) davanti al banchetto da calzolaio nel suo piccolo bugigattolo. Era zoppo: la polio faceva molte vittime. Era frequente d’estate vedere una piccola bara bianca portata in testa da una donna.  
          Le  generazioni si passavano il testimone come in una staffetta. Il rinnovamento era lento, quasi impercettibile, senza strappi. Le generazioni si succedevano seguendo un copione già noto. Il ragazzo sapeva che avrebbe fatto come il giovane e il giovane come l’anziano. Non si discuteva la gerarchia, non si discutevano le regole. Chi non le rispettava pagava un prezzo salato. Pur in tanta miseria, la delinquenza era quasi inesistente. Solo in un paio di famiglie crescevano ladri. Ladri di polli noti ai bonefrani, quasi sempre presi dai carabinieri  senza sconti di pena. Ricordo che alcuni rubarono i polli che mio padre cresceva dietro casa. Furono presi mentre li mangiavano. Dopo, per poter emigrare ed avere il passaporto dovettero chiedere a mio padre di ritirare la denuncia.          Non erano santi i bonefrani ma quasi tutti si sentivano obbligati a rispettare regole rigide. Un formalismo che finiva per essere sostanza e che accompagnava tutta la vita dalla nascita alla morte con i suoi riti di pianto e con le ferree regole del lutto, dalla barba non rasata per gli uomini all’abito nero per anni per le donne. Vigeva un autoritarismo rigido basato sull’età e sul sesso. I ragazzi dovevano ubbidire ai grandi, le donne essere sottomesse ai maschi; la più giovane non si sposava se prima non si sposava la sorella maggiore. Tutto era regolato, come comportarsi davanti agli altri, non dare scandalo. La faccia pulita anche se i piedi potevano essere sporchi. Il lutto anche quando non si sentiva dolore. La fedeltà anche quando non si era fedeli. Anche le regole più banali dovevano essere rispettate: io sono mancino ma fui obbligato, come tutti, a mangiare e scrivere con la destra.
          Le differenze tra le varie categorie sociali potevano sembrare modeste ma erano significative. Alla base della piramide c’erano i contadini che formavano sottoclassi, dal più povero che non possedeva terra al proprietario di pochi o parecchi ettari. I veri proprietari erano pochi e facevano classe a sé, fregiandosi del titolo di don. Gli artigiani erano relativamente numerosi e si ritenevano più evoluti dei contadini che si vendicavano chiamandoli spregiativamente “cachecart”. I commercianti erano più vicini agli artigiani. In qualche raro caso riuscivano a far studiare un figlio.  I “signori”erano una minoranza, vivevano della loro proprietà, del frutto dei terreni dati a lavorare ai contadini. I loro figli dovevano studiare  e diventare avvocati o medici anche se non ne avevano voglia o capacità. Questo schematismo era molto relativo. Alcuni, ad esempio, erano allo stesso tempo artigiani e contadini. In ogni caso, nella vita di relazione le differenze sociali non impedivano una sana e  amichevole convivenza. Se la casa dell’artigiano o del commerciante era meglio arredata e non ospitava animali, poi si vivevano gli stessi problemi, si discuteva sugli stessi argomenti e ci si ritrovava in piazza tutti insieme.
          Per molto tempo Bonefro fu un piccolo mondo chiuso, quasi impenetrabile. Il contadino usciva dal paese per andare alle fiere e l’artigiano andava a rifornirsi in città ma si trattava di uscite sporadiche. Ciò contribuì a formare un carattere particolare, con forte individualità. Il comportamento generale era quello comune al Sud: solidarietà al gruppo di appartenenza, alla piccola comunità; assenza del senso dello Stato. Grande rispetto per le regole locali ma poca attenzione a uno Stato spesso sentito – non a torto- come estraneo e talora nemico. Da sfruttare, se possibile, più che da difendere e rispettare. Alcune caratteristiche erano tipiche del bonefrano. Razionale e riflessivo, finiva con l’essere sicuro delle proprie idee sino a diventare cocciuto, rigido. Abituato a lottare per la sopravvivenza, finiva spesso per apparire tendenzialmente violento soprattutto quanto era colpito l’orgoglio maschile: così, almeno, vedevano il bonefrano gli abitanti degli altri paesi. Per molti anni fu ricordato un feroce delitto di un giovane che aveva avuto il torto di fidanzarsi con una ragazza che aveva preferito lui a un precedente fidanzato. La sera della festa di S. Celestino, la vittima fu attratta  con un tranello verso il Vallone Varco. Quando fu ferito tentò di fuggire risalendo tra le case e chiedendo aiuto. Fu finito crudelmente. Un altro delitto molto precedente  rimase a lungo nella memoria: dell’uomo tornato dall’ America per vendicare l’onore. Gli avevano riferito che la moglie lo aveva tradito con un signorotto del paese. Sembra che non fosse vero. Non tentò di informarsi bene. Si appostò e uccise il presunto violentatore. Fuggì, fu preso per una delazione (era stata messa una grossa taglia dalla potente famiglia delle vittima). Morì in carcere.
          Credo che alcuni bonefrani volessero apparire più decisi e duri di quanto non fossero in realtà. Questa apparenza dura si manifestava con affermazioni perentorie, con intercalari forti e spesso con bestemmie ad effetto ma la maggior parte – quelli veramente duri e decisi- era di poche parole: la caratteristica del bonefrano di allora era parlare poco, mantenere la parola data, reagire anche duramente alle offese. La nomea di gente violenta era diffusa nel circondario non sempre meritata e spesso amplificata; fatti isolati venivano generalizzati. Ho sentito che sino al dopoguerra alcuni abitanti di altri paesi preferivano girare attorno ma non attraversare Bonefro. Mi raccontava anni fa un amico emigrato a Montreal che un giorno negli anni ‘50 era al bar frequentato dagli italiani. Un vecchio emigrato stava descrivendo agli amici il carattere violento dei bonefrani. Gli si rivolse risentito chiedendogli ragione di quell’ accusa. Il vecchio gli raccontò: da giovane doveva sposarsi con una ragazza di S. Elia. Una mattina presto partì dal suo paese, Montelongo, per andare a piedi a S. Elia. Arrivò all’alba sulla piazza di Bonefro dove passeggiavano due uomini avvolti nel mantello nero a ruota. Lo fermarono e gli chiesero in malo modo perché mai passasse nel loro paese. Spiegò che si recava a casa della promessa sposa a S. Elia. “Chi ti ha dato il permesso di passare qui?”, gli chiesero minacciosi. Tentò di spiegare e poi, spaventato, disse che aveva pochi soldi ed era disposto a darli a loro pur di essere lasciato in pace. Gli fu risposto, sempre con accento duro, che i soldi non interessavano che poteva andarsene ma senza farsi più vedere. Questi fatti isolati venivano generalizzati e finivano per caratterizzare il paese.
          L’ esasperato senso di appartenenza- sino a guardare con sospetto i forestieri- era sicuramente un limite e non favoriva lo sviluppo del paese. Era raro che uno di Bonefro si sposasse
fuori dal paese e che gente di altri paesi si stabilisse a Bonefro. Bastava dire u cul’turtes’ o u zennes’ per individuare una persona: non ce n’ erano due del medesimo paese che vivesse a Bonefro. Del resto, il paese era diviso anche nel dopoguerra in fazioni: i giovani del piano combattevano ancora quelli del Rosello. La lotta poteva diventare anche dura. Ricordo sassate che rompevano anche i vetri delle finestre tra i due gruppi di giovani che a volte prendevano e maltrattavano un “prigioniero”. 
          Tutto questo scomparve rapidamente nel dopoguerra.
          Questi accenni possono indurre a credere che le limitazioni economiche e di rapporti col mondo esterno fossero condizione di arretratezza culturale e ignoranza dei problemi sociali. Bonefro, invece, si distingueva per vivacità culturale e per fermenti sociali. Vivacità che percorreva tutte le classi, anche le più umili. Ho conosciuto sin da ragazzo  molti bonefrani- contadini, artigiani- interessati al sapere e con conoscenze inaspettate. Ricordo un contadino vicino di casa che citava Dante. Parlava un ottimo italiano. Molti anni dopo, ottantenne, si sentì male: quando andai a visitarlo mi disse: “Dottore, ho un infarto”. Non si sbagliava. Morì dopo qualche giorno. Aveva frequentato solo la seconda elementare.
          Bonefro, d’altra parte, aveva conosciuto molto presto sollecitazioni sociali e già agli inizi del 900 aveva avuto un circolo socialista, come ci informa con particolari Michele Colabella in uno dei suoi preziosi libri. Nel dopoguerra questi fermenti, sopiti durante il fascismo, si svegliarono determinando vivaci dibattiti politici.
          Vorrei dedicare qualcuna di queste note a questi aspetti cui per ora accenno soltanto.

Nicola Picchione