LA PIAZZA

          Tutte le strade di Bonefro portano alla piazza che ne è il cuore, come le piazze di tutti  paesi. Lo stato di salute della piazza esprime quello dell’intero paese.  Oggi sembra un guscio quasi vuoto che- se si esclude qualche breve periodo dell’anno- ti mette addosso una desolazione, un cuore senza più forze al quale arrivano vene senza più sangue. Una volta era un cuore pulsante di vita. In ogni ora del giorno, dalla mattina presto alla sera tardi, c’era gente eccetto quando il grande orologio della chiesa batteva il mezzogiorno: allora tutti sparivano in un attimo quasi per incanto. Era un deserto di breve durata. Appena dopopranzo, col tempo bello, davanti ai due bar storici sedevano i giocatori di carte attorniati dai guardoni che vedevano le carte dei giocatori, pronti a criticare l’uno o l’altro. C’erano gli affezionati a uno dei due bar. Ricordo il gruppetto che davanti al bar Di Marzo ( u chefé d’ Cole d’ Stef’n) giocava la Calavrese o il tressette a perdere: il maestro Peppino Lalli e Dionisio Colabella erano tra i più abili. Ogni mano era commentata, ogni errore sottolineato. Non litigavano, non alzavano la voce; si giocavano caramelle. Ricordo la strana coppia che vidi un giorno al bar Giannotti,  nell’angolo con l’inferriata (ngopp’ u cess’). Silenziosi, calmi, quasi isolati da tutti, con le loro figure stagliate contro il bosco di fronte,  portavano avanti la scopa come se si giocassero non solo il caffè: il vecchio Michelangelo Lalli (mast M’chelang’) e Francesco Saverio Lalli (mast’ Frangisc, il maestro dei falegnami di Bonefro) sembravano giocarsi l’abilità di vecchi intelligenti abituati a vincere nella vita; il primo lisciandosi la lunga barba bianca, il secondo strizzando gli occhi dietro le lenti da miope (che immagine, se avessi avuto la macchina fotografica!).
          Davanti ai due bar si protraevano le sfide a “padrone e sotto” a base di bottiglie di birra che spesso finiva nella pancia del solo “padrone” costretto dalla indisponibiltà del “sotto”. Strano gioco nel quale il padrone era sottomesso al sotto se non voleva riempirsi di birra sino a star male. Forse una rivalsa contro i padroni nella vita reale.
          La piazza aveva gli ospiti fissi: i “chiazzaroli” e i commercianti e artigiani che là avevano la loro attività, i macellai, i barbieri, il bottegaio. Molte attività erano in piazza; la carne esposta ai ganci davanti alle macellerie ( una pacchia per le mosche), l’antirivieni dal municipio e dall’ufficio postale, il pescivendolo annunziato dal banditore (M’ngucc’ Busc’), il passeggio sui marciapiedi degli intellettuali presi dalla politica, da una parte quelli di destra dall’altra quelli di sinistra come Peppone e don Camillo.
           Per le donne del popolo c’era quasi un tacito divieto anche  ad attraversare la piazza se non era proprio necessario. Alcune anziane preferivano fare il giro, piuttosto. Per non mettersi in mostra, per non essere guardate.
          In piazza si parlava di lavoro, di politica, di emigrazione; si scambiavano le notizie sui fatti e sulle persone del paese. Nel dopoguerra i primi comizi si tenevano dal piccolo balcone del vecchio caffè Di Marzo. L’anima rossa  del paese e la controparte democristiana affollavano la piazza durante i comizi, discutendo e a volte litigando: la politica era una cosa seria. Finito il fascismo, c’era voglia di partecipare. Ci si credeva, allora, nella politica. E la gente non capiva (almeno all’inizio: poi cominciò a capire..) come mai gli oratori se ne dicevano tante e poi scendevano al bar e prendevano insieme il caffè.
           D’estate, al tempo della mietitura, la piazza diventava uno strano albergo all’aperto. Arrivavano i mietitori dalla Puglia. Erano partiti dalla pianura dove il grano matura prima ed erano risaliti verso la collina. Scalzi- le scarpe appese alle spalle per risparmiarle- vestiti di mutandoni stretti legati alle caviglie, erano in molti a dormire sul selciato della piazza con una coperta sotto la testa, pronti ad alzarsi alle prime luci e partire, la falce sulla spalla, in paranze per i campi anche molto distanti. Chini per ore sul grano, con la falce in rapidi movimenti, riuscivano anche a cantare. Alcuni avevano una voce molto bella.
         
          Il trionfo della piazza era nei giorni di festa: S. Nicola, S. Antonio, S. Celestino. La piazza si riempiva di baracche, la cassa armonica troneggiava. I ragazzi contenti se, rimediata qualche lira, potevano comprare noccioline o anche un gelato da zia Ida al caffè Di Marzo: all’inizio- subito dopo la guerra- con 5 lire te lo dava in un minuscolo cono di carta gialla, quella dei maccheroni; con 10 lire in un piccolo cono vero da gelato in due varianti: alla crema e al cioccolato. In piazza passava la processione, attesa dai giovanotti per osservare le ragazze che seguivano la statua del santo. La sera la piazza era piena degli amanti della musica. Molti, contadini e artigiani, conoscevano la trama delle opere, aspettavano i pezzi più noti, facevano apprezzamenti sulla banda (alcune pugliesi come quella di Squinzano erano particolarmente apprezzate), aspettavano l’assolo della tromba o del flauto che si esibiva nelle variazioni del Pastore svizzero. Guai se qualche ragazzo disturbava. Quando l’orologio della chiesa batteva le ore durante l’esecuzione qualcuno mormorava indispettito : “Stu cazz d’ r’llogg”.  Si aspettava il canzoniere poi si ringraziava con un mazzo di fiori il maestro che concedeva un bis e dopo tutti verso l’inferriata a guardare i fuochi artificiali che Giuliano sparava dal Vallone varco. Il colpo finale, secco e forte ( pagato Giuliano) mandava tutti a casa. I ragazzi e le ragazze – alle quali era stato concesso il permesso di uscire, sotto lo sguardo vigile dei genitori o dei fratelli- tornavano a casa con la pena di dover aspettare la festa successiva.
          In piazza, seduti davanti al bar o passeggiando su e giù, i giovani parlavano della loro vita e del loro futuro, discutevano di tutto a seconda delle tendenze. Di sport, di donne, di politica.
          Ci raccoglievamo davanti al bar Giannotti proprio all’estremo della piazza o al bar Di Marzo al centro oppure davanti al Salone da barbiere di Aldo che era uno stretto cunicolo. La sera consumavamo le pietre del marciapiede su e giù, sognando di andare via chissà dove ma lontano. Poi venne la TV e ci ritrovavamo il giovedì sera a guardare Mike Bongiorno al bar Di Marzo, l’unica TV disponibile. Gli uomini accalcati in basso immersi in una cappa di fumo dall’odore acre di birra, vino, caffè mentre le donne erano raggruppate in un piccolo palco in alto quasi al buio come se si vergognassero.
         
          Uno dei miei interlocutori più frequenti era Michele Iarocci (Nasone). Cominciavamo con Aristotele e Platone per  passare a Marx, alla Chiesa, a discutere della Russia e dell’ America illudendoci che rappresentassero la giustizia o la libertà. Si discuteva e si passeggiava in maniera molto antica, come al tempo dei greci: quando voleva evidenziare un concetto, chi parlava si fermava e accompagnava con gesti le parole poi riprendeva a camminare lentamente. Ho rivisto l’anno scorso un vecchio maestro di S. Croce che aveva insegnato a Bonefro negli anni ’50. Mi confidò che tornava a Bonefro ogni tanto per parlare in piazza e ricordava con ammirazione le discussioni intellettuali che animavano la piazza di Bonefro a quei tempi.

          Così la piazza segnava la vita del paese, dalla nascita al matrimonio alla morte. Come l’aria fresca che arriva dall’Adriatico o quella calda proveniente dalla parte opposta, alla piazza giungono le notizie, là si fermano in una sorta di mulinello, si confondono con i commenti, diventano anche maldicenze, si dilatano, si distorcono per poi rimbalzare nelle case di tutti. Piccolo palcoscenico dove l’inutilità della vita umana era temporaneamente sospesa e tutto sembrava importante; dove era concentrato il bene e il male della comunità, le cattive notizie e le speranze. Dove il pullman o l’auto da noleggio di Venditti o di Santoianni si portavano via poco a poco alcune forze migliori. Specchio di un paese denso di vita, chiuso nelle sue tradizioni, rassegnato da secoli a ritenere la vita un campo di lavoro e di stenti. Ma pure vivo, com’era viva la piazza, con profondo senso del vivere insieme che essa sapeva ben esprimere. Poi venne, per buona sorte, il benessere anche se pagato a caro prezzo. Paese e piazza si svuotarono. La TV in tutte le case divenne la regina e fece conoscere il mondo ma imprigionò corpi e menti.
          Non si torna indietro e non c’è posto per la nostalgia che fa vedere bello anche ciò che era brutto e a volte tenta l’anima tramutando la vecchia forza allora centrifuga, la voglia di fuggire, in centripeta. Si può andare avanti in tanti modi. La piazza è là a testimoniare come si andrà avanti, piccolo specchio della vita del paese. Affollata di auto malgrado il divieto di sosta (testimone di quanto teniamo a rispettare le regole e le autorità a farle rispettare) ma ancora col piccolo gruppo di anziani che la tengono viva. Quando torno, so di trovarli là seduti a raccontare non importa che cosa. A raccontare a me di sé e degli altri. A lamentarsi che tutto va male e che il paese è quasi morto. Ma loro sono là a testimoniare il contrario e a ricordare che gli anziani sono preziosi libri di vita, testimoni e attori del bene e del male, addolciti dall’età come si addolcisce la luce del sole al tramonto. E io li ascolto, con attenzione, con piacere, con amore. Da loro ho imparato tante cose di Bonefro, del passato che è il padre del presente, della gente che spesso viveva di stenti ma conservava l’orgoglio e la dignità.
          La piazza è sempre là con la sua vecchia vasca dove i pesci sembrano gli stessi quasi immortali, con  le sue vecchie panchine di ferro indistruttibili, un po’ malandata con le aiuole abbandonate, spesso quasi vuota. Specchio di un paese il cui futuro non sembra brillante ma bisogna pur sempre sperare, sapendo che per tutti- anche per i paesi- ci sono alti e bassi. A pensarci bene, anche se meno viva di una volta, la piazza di Bonefro- come le piazze di tutti i paesi- è ancora un luogo di vita più umano, più vero e più incoraggiante di quei luoghi inumani delle città dove qualche anziano va a spendere la sua solitudine seduto davanti a  una tazza di caffè, quelle squallide prigioni della modernità che si chiamano centri commerciali. Caverne di cemento e vetri sui quali piovono fredde luci colorate che dovrebbero mettere allegria e invece fanno tristezza, tutte eguali tutte imbellettate falsamente gonfiate come le labbra di certe attricette.  Le piazze dei paesi, ognuna diversa dalle altre, ognuna con la sua storia e con la sua gente, col suo dialetto e i suoi rumori, le sue pietre antiche, anche quando appaiono svuotate non sono morte e non sono mute. Attendono che la gente ritrovi il senso della misura e del vivere insieme. Che spenga le luci colorate, che spenga la TV e preferisca andare in piazza a incontrarsi.
          Quando torno a Bonefro, è in piazza il mio vero incontro col paese. La casa comune, anche se un po’ abbandonata, anche se le auto sono più delle persone. Dove ritrovi qualche amico, dove qualche vecchio lega il presente al passato. Dove senti il vuoto di qualcuno che ci ha lasciato o inaspettatamente rivedi qualcuno che è tornato come te da lontano per una visita, ospite temporaneo della piazza ma pur sempre legato a questo luogo tanto simile a quelle persone che ti lasciano indifferente quando le hai affianco ma che poi ti mancano tanto quando sono lontane.

Nicola Picchione