WEBMASTER NICOLA LALLI

 
 
 
LA SBARRA di Nicola Picchione

       

 

1-Lo sgarro

            Come tutte le mattine , Rocco Bacchetta uscì dal Municipio alle 8 in punto, puntuale come un treno come ripeteva anche se di treni ne aveva visti pochi e quando c’era l’ordine tassativo che arrivassero in orario. Si fermò a lanciare uno sguardo  indagatore in basso , verso la piazza quasi deserta . Calcò il berretto sulla fronte, tirò su la larga cintura di cuoio, scura più di vecchiaia e di sporcizia che di colore,  diede un colpo di bacchetta sui pantaloni e si avviò  per la sua solita , prima incombenza della giornata .
            Rocco era la guardia del paese, ormai prossimo alla pensione. Bacchetta era il soprannome col quale lo chiamavamo noi ragazzi  che temevamo quel suo arnese di  salice sottile ed elastico col quale  colpiva  chi sorprendeva a giocare dove non si doveva. Rocco era un buonuomo. Qualcuno sosteneva che a casa era succube della moglie, una donnina piccola , esile, con pochi denti, una vocina stridula e dei sottili baffetti neri. Proprio per questo, dicevano i maligni, egli cercava di rifarsi quando era nelle sue funzioni di guardia .
 Quel secondo sabato di Novembre  era l’ultimo giorno dell’anno  per aprire il gran cancello della Villa comunale. Per tutto l’inverno la Villa sarebbe rimasta chiusa, come da sempre. La Primavera successiva l’avrebbe riaperta qualche altro: Rocco sarebbe stato già in pensione. 
                Scese verso la piazza, passò davanti al monumento ai caduti, un alto piedistallo con inciso l’elenco dei caduti nella Grande guerra, privo del soldato in bronzo incitante alla lotta per la difesa del patrio suolo e finito in un cannone a caccia di altri suoli . Rocco era riuscito, quando passava davanti al monumento, a non pronunciare più il perentorio : ”A noi!” ma ancora sollevava in alto (meno in alto di prima) la mano destra aperta, in segno di saluto. Non farlo- come gli avevano ripetutamente detto il Sindaco e il Segretario comunale- gli sarebbe parso un affronto verso coloro che avevano generosamente versato il loro prezioso sangue per l’amata Patria, come durante la cerimonia cui assisteva tutto il paese recitava il Segretario comunale il 4 Novembre, giorno della vittoria ormai lontana ma non sopraffatta nel ricordo dalla recente sconfitta.
              Imboccò la strada in salita a larghi gradoni di pietra che portava alla piazzetta antistante la Villa. A metà salita salutò come al solito l’ amico Ciccio che aveva già aperto la bettola  con un :”A tra poco “ , saluto e segnale per preparare un bicchiere di  rosso ( da Ottobre cambiava da bianco a rosso il vino che  Ciccio gli offriva ogni mattina non solo per amicizia) . Arrivato in cima alla breve salita  si fermò come al solito, asciugandosi il sudore dalla fronte con un gran fazzoletto blu a fiorellini bianchi. Come al solito, si sedette sulla grossa pietra squadrata posta in cima alla strada e si guardò intorno. Non per ammirare la bella piazzetta ovale ma per darsi un contegno  mentre riprendeva fiato. Del resto, il suo mestiere lo portava a guardarsi spesso intorno.
            Mentre Rocco si riposa, abbiamo tempo per parlare brevemente della piazzetta e della Villa Comunale.
            S.Teograto di Nostro Signore non aveva ( e non ha) bellezze da vantare. Come per molti altri paesi poveri del Sud costruiti in alta collina, ai piedi dell’Appennino, spesso su spaventosi costoni di roccia a difesa dai Saraceni,  i santesi (così si chiamano i suoi abitanti) erano orgogliosi dell’aria buona e dell’acqua abbondante e fresca . Ma  lo erano in particolare della loro Villa comunale. Non c’era casa di  emigrato - e si trovano santesi in ogni parte del mondo, dalle Americhe all’Australia, dal Belgio alla Svizzera e alla Germania - che non avesse in mostra una cartolina della Villa. Qualcuno si era anche fatto dipingere  un quadro ad olio  copiato da una cartolina. La Villa era appartenuta a un vecchio nobile che, per fortuna dei santesi, non avendo eredi e avendo in antipatia i preti, aveva preferito lasciare Villa e casa al Comune. Il palazzetto in pietra locale era ancora abbandonato ai tempi della nostra cronaca. In Comune si litigava sulla sua sorte: se farne un ospizio per i vecchi oppure un dopolavoro operaio
 o trasferirvi il Circolo dei signori. Queste proposte avevano occupato molte sedute
 del Consiglio comunale, con grandi discussioni ma senza conclusione.  Intanto, vi spadroneggiavano indisturbati topi e scarafaggi e tutto - compresi alcuni bei mobili antichi - andava alla malora. La Villa, invece, ebbe più fortuna forse per la vocazione dei santesi a coltivare in ogni modo la terra, anche se per essi terra voleva dire cereali e le piante  apprezzate erano quelle da frutto e da legna da ardere. Furono mantenuti ed accresciuti gli alberi ornamentali , furono molto curate le siepi e le aiuole. Fu anche ricostruita la parte del muretto in pietra che delimitava la Villa verso Est , sullo strapiombo che guardava la piccola pianura sottostante . I  santesi non si soffermavano ad ammirare lo splendido panorama che si godeva da quella parte. Una linea azzurrognola di colline e monti  chiudeva in parte l’orizzonte e degradava lontana verso il mare che nei giorni tersi  brillava di un blu intenso stagliato sotto il cielo tanto da sembrare vicino e dare l’impressione di respirare aria di mare purificata dall’altura. L’estate, il giallo intenso della piccola pianura sottostante coltivata a grano accendeva di calda luce quella veduta.
            La Villa era separata dalla piazzetta da un muretto basso in pietra dal quale si innalzava una poderosa, alta cancellata. La piazzetta non era meno bella della Villa, nella sua semplicità . Di forma ovale, aveva al centro, davanti al cancello, un grande leccio ed era in buona parte coronata da case a uno o due piani quasi tutte in pietra grigia, con scale esterne che finivano in un pianerottolo sul quale spesso  nei pomeriggi d’estate  le vecchie si sedevano a fare la calza,  filare la lana, parlare. Il piano terreno  era usato come stalla o come bottega.  Quella del  maniscalco era nell’angolo vicino la Villa alle cui sbarre spesso erano legati asini, muli o cavalli . Dalla parte opposta  c’era il salone del barbiere- in verità un budello stretto e profondo- e quasi al centro della fila di case, proprio vicino casa nostra, la bottega del falegname riconoscibile per le tavole appoggiate al muro quando il tempo era bello. Affianco a lui era il ciabattino che spostava il suo banchetto quasi sull’uscio e, come ripeteva sorridendo, teneva tutto sotto controllo. Spesso la sera noi ragazzi  occupavamo la piazzetta con i nostri giochi, almeno sino a quando arrivava Rocco Bacchetta che ci costringeva a fuggire , soprattutto d’estate quando le donne stendevano al sole su tavole appoggiate alle sedie  la salsa di pomodoro ad asciugare e concentrarsi o a Settembre quando veniva disteso il granturco a seccare su grandi teli. La sola nostra presenza ed il timore che potessimo sollevare polvere faceva chiamare la guardia che, non potendo allontanare le galline riusciva a far fuggire noi.
            Rocco, ripreso fiato, si avviò verso il cancello con in mano la grossa chiave che gli rimase a mezz’aria. “Gesù e Maria!”, esclamò. Sollevò il berretto dalla fronte e guardò incredulo. Non poteva credere ai suoi occhi . “Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria” disse avvicinando il largo viso carico di meraviglia al cancello, incredulo di ciò che vedeva. La sua bocca sdentata rimase aperta , incapace di dire altre parole. Mancava dal cancello una sbarra verticale . A Rocco parve - come riferì dopo - che il cancello gli volesse mostrare la sua ferita,  il suo dente strappato, la sua dignità lesa. “Santi del paradiso!” esclamò. Gettò ancora uno sguardo al varco che gli sembrava molto più grande di quanto fosse in realtà (la sbarra mancante misurava meno di un metro), alzò un braccio verso l’inaspettato vuoto quasi a sincerarsi che mancava una sbarra. Non ebbe il coraggio di infilarlo nel nuovo spazio, si girò e affrettando il passo e mormorando chissà quali frasi riprese la via del ritorno, infilando la chiave nella cintura come una ormai inutile arma e colpendo con decisi colpi di bacchetta i suoi pantaloni quasi per autopunirsi per non aver evitato quel saccheggio.  Entrò da Ciccio il cantiniere e bevve d’un fiato il grosso bicchiere di vino già pronto sul bancone. Raccontò all’amico ciò che aveva veduto e corse al Municipio per quanto gli consentiva la grossa pancia. Vi giunse senza fiato. Trovò Romeo, l’unico impiegato del Comune, che si meravigliò dell’ aspetto di Rocco. “ Roba da pazzi - si sentì dire Romeo- cose che uno non può credere. Io capisco chi ruba ma sfregiare che senso ha?”. Raccontò quanto aveva visto con toni da tragedia, con interruzioni ed esclamazioni, con respiro affannoso, togliendosi il berretto e ricalcandoselo, asciugando il sudore sulla testa pelata. Si sentiva particolarmente colpito e offeso come guardiano della dote più bella del paese, invidiata- ne era convinto- da tutti gli altri paesi.
“ Vado a dirlo al Sindaco” terminò.
“Aspetta , siediti un pò , riposati prima - lo fermò Romeo - e ragioniamo. Secondo te, chi può essere stato?”
“Che vuoi che ne sappia. Sicuramente dei mascalzoni. Gente che non ha niente da fare e la notte se ne va a fare dispetti “.
 “Rocco, non essere ingenuo. Tu sei intelligente e capisci a volo (Romeo mentì: era persuaso che solo lui- a parte chi comandava- era in grado di capire a volo). Questo è più di un semplice dispetto. Non si va di notte a prendere freddo e col rischio di essere visti solo per fare una bravata. Questo è uno sfregio a tutto il paese ma soprattutto a chi comanda, alle Autorità. Pensaci e mi darai ragione: tu sei intelligente, non ti ci vuole molto per arrivare alla mia stessa conclusione “.
 Rocco  sollevò il berretto , si grattò la pelata :
 “Senti , proprio non saprei che dire”
“Rocco , non ti sembra che questo sia la zampata dell’orso?”
Rocco sapeva a chi alludeva Romeo quando parlava della zampata dell’orso.
“No , non credo” si limitò a dire “per quanto , ora che mi ci fai pensare ...”.
“ Rocco , quelli sono fatti per rompere i coglioni alla gente perbene . Più casino fanno più sono contenti. Si danno importanza. Non hanno niente da perdere. Te lo ripeto per la millesima volta : se fosse per me li manderei tutti a leccare il culo a Baffone che li spedirebbe subito in Siberia”.
Accese un’altra Alfa dal mozzicone ormai all’orlo del piccolo bocchino d’osso più nero che giallo. Le Alfa erano le sue sigarette preferite e non perché fossero le meno care, aveva cura di precisare. Ne fumava due pacchetti al giorno, con disperazione della moglie. Non per la salute del marito ma per il portafoglio. Lo chiamavano Alfaromeo. Lavorava in Comune da anni  quando tutto funzionava perfettamente e l' Italia era la luce del mondo, come amava ripetere. Figlio unico di madre vedova, aveva frequentato la sesta classe, cosa che gli dava l’impressione di appartenere al ristretto gruppo di intellettuali del paese. Molti sostenevano che quel posto non era il frutto della sua scolarità e dell’essere orfano ma un regalo del defunto don Donato Pettini del quale, si mormorava, egli era figlio non riconosciuto.
“ Lo vogliono Baffone? Se lo vadano a prendere. Ora se la prendono col cancello per sfogare la loro rabbia ma questi appena possono ci daranno guai”. Romeo non perdeva occasione per affondare la sua tagliente lingua  nella carne di “quelli”, come li chiamava. Il suo lungo e magro viso era terreo e non poteva esprimere emozione col rossore ma la danza nervosa delle folte sopracciglia sottolineava l’ardore col quale lanciava le sue sentenze.
             Rocco aveva voglia di togliersi quel peso dallo stomaco , voleva andare a casa del Sindaco. Ebbe fortuna: appena uscito , lo vide in fondo alla Piazza .”Forse viene proprio qui” pensò , rientrando. Dopo qualche minuto , il Sindaco entrò in Municipio. La guardia raccontava “la disgrazia” e Romeo commentava muto ma sollevando e abbassando quella specie di spazzole grige sovrastanti gli occhi scuri e infossati mentre la lunga, gialla unghia del mignolo scuoteva la cenere della ennesima Alfa. Alla fine del racconto di Rocco, non poté fare a meno di dire :
“ Don Alfonso, avete capito che arrivano a fare quelli ?”.
 Il Sindaco capì e con voce pacata rispose:
 “Non diciamo fesserie. Chissà chi sarà stato. Qualche giovanotto ubriaco o troppo spiritoso.” Aggiunse:
 “Comunque, non facciamone una tragedia. Ripareremo al più presto il cancello della nostra Villa”. Don Alfonso era persona pacifica. Basso, corpulento, con baffi corti, giallognoli di nicotina, parlava con voce roca. Era stato podestà ed ora era sindaco. I cambiamenti politici non avevano modificato il suo atteggiamento e la fiducia che i santesi ponevano in lui. Aveva interrotto gli studi di legge per dedicarsi ai terreni avuti in eredità.
            In breve , la voce si sparse e a mezzogiorno non c’era santese che non sapesse del “taglio
 del cancello”. Molti si recarono a vedere quella ferita, tutti disapprovando. Il Maresciallo arrivò accompagnato dall’appuntato. Osservò attentamente, passò e ripassò davanti al cancello dondolando il suo pesante corpo e scuotendo la testa. Promise una indagine severa ma nessuno sperò che sarebbe riuscito a trovare i colpevoli visto che non aveva mai preso un ladro di polli che a S. Teograto erano una rarità ( i ladri, non i polli). Il giorno successivo, domenica, nella piazzetta era un via vai ; anche alcune donne, a coppie, chiuse nello scialle scuro, passarono davanti al cancello. I ragazzi arrivavano a gruppi, guardavano da lontano e scappavano cantilenando: “Hanno tagliato la sbarra, hanno tagliato la sbarra e nessuno lo sa chi è”.
            Tutto sarebbe finito nel giro di qualche giorno come in un pollaio quando un rumore produce un grande schiamazzo che presto svanisce  e il cancello, malgrado le promesse del sindaco, sarebbe rimasto per sempre in quello stato se qualche tempo dopo non fosse accaduto qualcosa di molto, molto strano che in modo ancor più strano e misterioso fu ricollegato alla sbarra scomparsa.

 

2 - Misteriosi incidenti

Il sabato 12 Novembre alle 23 circa  Nino Vaccari, unico geometra del paese, detto Manidoro  si alzò  dal tavolo dove aveva giocato a carte e bevuto birra, infilò il giaccone di pelle nera che lo rendeva ancora più basso e tozzo. Uscendo dal caffé fu investito da un’aria fredda e umida. Alzò il bavero del giaccone e cercando di evitare il fango si avviò verso casa  nella parte alta del paese dal quale era un po’ isolata. Lo accompagnava il cigolio dei rari lumi di ferro smaltato scossi dal vento, appesi di traverso lungo la strada, la cui luce debole e gialla dondolava spostando e deformando le ombre.
Nino era consigliere di maggioranza ed era intrufolato in vari affari. In paese si diceva che faccende di case e terre se volevano andare a buon fine dovevano essere insaponate dalle sue mani d’oro. 
Nei suoi ricordi  tentò inutilmente, in seguito, di capire che cosa fosse accaduto. Si ritrovò a terra, poco vicino casa, con un gran mal di testa. Si tastò e  si accorse alla debole luce che arrivava dall’ultimo lume della strada di perdere sangue. Raccolse il berretto e si alzò a fatica. Arrivò a casa, svegliò la moglie che nel vedere sangue sui suoi capelli prematuramente grigi non riuscì a trattenere un urlo. Nino le urlò a sua volta di tacere, bestemmiando la madonna, si fece dare un fazzoletto pulito e compresse la ferita. Fu svegliato il figlio e spedito dal medico.
Don Enrico arrivò poco dopo con la sua borsa. Osservò, fece qualche domanda, tagliò i capelli della zona occipitale, suturò con due punti, medicò, rassicurò e se ne tornò a dormire. “E’ una piccola ferita lacerocontusa- disse- che ti sei fatta cadendo”. Nino non seppe che rispondere. Non ricordava di aver perso l’equilibrio e gli parve strano di aver perso conoscenza ed essersi fatta quella brutta ferita per una caduta. Gli venne anche in mente che non c’erano pietre dove era caduto ma fango. Don Enrico  aveva pensato, tornandosene a casa, che era meglio non  bere troppo ma aveva evitato di dirlo a Nino. Tutto questo non  ebbe alcuna conseguenza e sia Nino che don Enrico tornarono alle loro faccende.
Il Giovedì mattina si apprese che il proprietario terriero Michele Cannarsa, l’americano, aveva subìto la sera precedente un incidente simile a quello del geometra. Si era ritrovato a terra con la testa dolente e una ferita alla testa. Don Enrico aveva medicato e ricucito. Aveva consigliato all’anziano proprietario di girare con un bel bastone per appoggiarsi, soprattutto di sera visto che i lampioni erano scarsi e di poca luce. Ma Michele rispose di essere certo di non aver perso l’equilibrio e di non sapersi spiegare come si fosse ferito e fosse caduto. Nemmeno lui ricordava i momenti precedenti la caduta. Ignorò il consiglio di rimanere a riposo per qualche giorno. “Se non ci sono io a sorvegliarli, quelli mi fanno fesso,  prendono la paga e di lavoro solo l’ombra” Si riferiva ai braccianti che lavoravano nei suoi campi che la pensavano del tutto diversamente. L’ americano  non era ben visto. Carlo, bracciante che non era mai stato a lavorare da lui, non si trattenne dal commentare quella sera : “ Una bella botta in testa gliela dovevano dare ma più forte e spaccargliela come una noce per fargli uscire fuori la cattiveria”. Carlo, detto falcemartello, era uno di quei compagni sempre pronto a urlare contro quelli che erano considerati i padroni e venivano chiamati pescecani. Era ritenuto litigioso soprattutto quando aveva bevuto, cosa che accadeva spesso. Aveva poco più di trent’anni, baffetti eleganti su un viso perfetto con due occhi che facevano girare la testa a più di qualche donna (“sembra proprio Errol Flynn”, diceva di lui la moglie del maresciallo che poteva essere sua madre). Non usava giacche e cappotti ma solo maglioni con il collo alto e uno giubbetto di pelle nera, ormai lucida e consunta. Anche d’estate portava, messo di traverso sui capelli neri e ricci che prepotentemente gli ricadevano sulla fronte, un berretto logoro che, si diceva, non aveva mai cambiato, come il giubbetto, da quando era morto il fratello in Russia. Quella sua frase su Michele Cannarsa gli costò, dopo, una indagine dei carabinieri ma, per sua fortuna, aveva passato la serata all’osteria quando l’americano tornò a casa ferito ed aveva molti testimoni.
Quando il Sabato notte don Enrico fu svegliato non immaginava di dover ricucire un’altra testa. Rosaria, la vecchia domestica dell’avvocato De Sanctis, gli raccontò piagnucolando che don Vittorio stava male e perdeva  sangue dalla testa. Lo avevano trovato a terra nel vico vicino casa verso le undici. Don Vittorio era un apprezzato avvocato (con lui le cause si vincono sempre, diceva la gente) ma si interessava anche di politica. Era nel Partito di maggioranza e, dicevano in paese, senza il suo parere non si muoveva niente. Aveva legami con i due parlamentari della Regione. Una sua raccomandazione era quasi una assicurazione di ottenere ciò che si voleva. Don Vittorio era a letto, con la testa fasciata. Il suo corpo piccolo e magro scompariva quasi senza rilievo sotto le coperte. A vederlo in quello stato, il viso grigio e asciutto con la bocca infossata (si era tolto la dentiera), sembrava impossibile che fosse un personaggio potente e rispettato. La ferita non era grande, anche se risaltava sulla testa calva e pallida. Anche lui non seppe dare una spiegazione: non ricordava che cosa fosse accaduto.
Questi tre incidenti in così breve tempo furono variamente commentati dalla gente  senza che venissero collegati tra loro. Qualcuno si mostrò dispiaciuto qualche altro non riuscì a nascondere una certa soddisfazione. Uno disse che ciò che non riescono a fare gli uomini a volte lo fa il caso. Ma molti cominciarono a sospettare che anziché il caso quegli incidenti tanto simili fossero dovuti ad altre cause. E non passò del tutto inosservato il fatto che tutte e tre le vittime (qualcuno usò questa parola) appartenevano “ al bottone”. Con questo termine i santesi intendevano l’appartenenza al sistema di potere locale: essere gente che conta, insomma.  Cominciò a  circolare il sospetto che si potesse trattare di aggressioni e qualcuno cominciò a chiedersi chi mai potesse avere interesse a queste aggressioni. Si escluse l’ipotesi di ladri: nessuna delle vittime era stata derubata. “Per me si tratta di un maniaco” commentò Giovanni il giornalaio “un delinquente che ce l’ha con le persone perbene”. Pochi presero sul serio il commento di Giovanni per il quale erano persone perbene tutte quelle, poche in verità, che compravano un giornale. La maggior parte dei santesi andò convincendosi, tuttavia, che si trattasse di una aggressione per vendetta.
Passò esattamente una settimana quando si diffuse la notizia che Nicola Venditti, imprenditore edile e consigliere comunale di maggioranza , si era ritrovato a terra con la testa dolente e ferita. Questo nuovo episodio non lasciò dubbi: non si trattava di incidenti . La domenica, i terreni bagnati dalla pioggia e la nebbia avevano tenuto i contadini lontani dai campi. La piazza era popolata da piccoli gruppi di persone, figure nere chiuse negli antichi tabarri che ancora adoperavano gli anziani  o giovani che passeggiavano e discutevano. L’argomento dominante era proprio quello delle “botte in testa” come ormai tutti dicevano. Molti pensavano a una vendetta. Le persone colpite svolgevano tutte un ruolo di rilievo in paese; da esse dipendeva il lavoro di molti. Qualcuno ricordò che Nino Vaccari e Nicola Venditti avevano gestito gli aiuti americani, i pacchi UNRA e le sovvenzioni ERP ( Michele Corso che leggeva l’Unità aveva letto la definizione di erpivori di coloro che gestivano questi aiuti e diffuse questo nomignolo ai due. I più, però,  li chiamavano erbivori). Questi discorsi erano fatti a bassa voce e solo tra amici fidati.
Nessuno fu mai in grado di capire chi per primo avanzò una ipotesi che all’inizio fu ritenuta uno stupido esercizio di fantasia ma che cominciò a circolare sempre più spesso, ripetuta con una sorta di godimento: che in quei colpi fosse coinvolta la sbarra  sparita dal cancello della Villa comunale. La voce si diffuse rapidamente e le venne dato sempre più  credito. Alla fine la sbarra divenne una protagonista, come se andasse in giro agendo da sola. Una sorta di fantasma, non più oggetto inanimato ma capace di girare, colpire, nascondersi, avere una finalità. Un essere inanimato –se si può definire essere un oggetto così semplice- non punibile.
 Questa diceria fu raccontata al Sindaco da Alfaromeo  che all’inizio ne rideva:
 “ Vi  rendete conto di che cosa  mettono in giro quelli là. Non solo usano violenza ma vogliono prenderci in giro. Don Alfò, qui dobbiamo fare qualche cosa. Questi finiranno col mangiarci”.
Don Alfonso sorrise. Ormai non rispondeva più alle sortite di Romeo contro “quelli là”. Ma capì che era meglio arginare quelle voci. Ordinò al fabbro di riparare il cancello, rimettendo una sbarra nuova e riverniciando tutto il cancello in modo da non rendere riconoscibile la parte riparata. Si raccomandò per un lavoro perfetto. Ma questo piuttosto che far dimenticare la sbarra sparita e allontanare i sospetti, li accentuò. Sembrò a qualcuno dei più simpatizzanti per la sbarra che fosse stato fatto un torto alla legittima proprietaria per quel posto non più a sua disposizione, subendo una sorta di espropriazione quasi essa- finita l’avventurosa vacanza- avesse dovuto misteriosamente e senza avviso ricomparire una bella mattina al suo legittimo posto. Insomma la sbarra divenne  protagonista di racconti e fonte della speranza di vedere altre teste rotte, essendo a lei possibile per una sorta di misterioso potere fare ciò che molti avrebbero desiderato ma non potevano fare. Si diffuse la voce che la riparazione era stata fatta per nascondere un fatto eccezionale: che i monconi del cancello non mostravano nessun segno di sega. Come se la sbarra non fosse stata asportata con una sega o un altro strumento ma si fosse quasi staccata volontariamente per mettersi a colpire certa gente. Era stato occultato quello straordinario fatto: i due monconi rimasti avevano una superficie perfettamente levigata. Naturalmente, non  era più possibile verificare questa incredibile affermazione non si sapeva da chi messa in giro. Non  tutti credevano a queste storie ma quelli che ci credevano ( o volevano crederci) avevano più voce degli altri. Qualcuno fece anche notare che nessuno aveva udito rumori sospetti la notte della sparizione della sbarra. Eppure segare un massiccio pezzo di ferro produce un rumore forte e sgradevole che gli abitanti della piazzetta – ma anche quelli che restano sino a tardi in piazza- avrebbero dovuto udire.
         Si sa che chi ha più voce finisce spesso per stabilire la verità, soprattutto quando piace credere in certe verità. Sempre più santesi finirono per dar credito a quella irrazionale ipotesi, anche se essi erano ritenuti nei paesi vicini gente di buon senso e con i piedi per terra.  A volte i desideri danno ali anche ai piedi.
            In breve tempo la sbarra fu un argomento di interesse e di conversazione. Se ne parlava soprattutto nelle case, tra amici fidati. Ci furono due diversi modi di parlarne: chi era dalla parte delle vittime esprimeva apertamente il proprio parere ed anzi lo ripeteva quasi a far sapere alle vittime che era dalla loro parte. Chi, invece, era per così dire dalla parte della sbarra era più reticente a parlare, ricorrendo a mezze frasi, allusioni, considerazioni vaghe, salvo i pochi pronti a esporsi ad ogni costo, incapaci di prudenza. Qualcuno fece osservare che era possibile individuare gli appartenenti ad uno o all’altro partito dal marciapiedi dove passeggiavano in piazza: da una parte i favorevoli alla sbarra, dall’altra i contrari. Sebbene ciò potesse avere un fondo di verità e anche di logica, questa osservazione fu il frutto del carattere
dei santesi, indagatori, portati al sospetto e- ad essere sinceri- a mettere in mostra le proprie
capacità analitiche.
            Oltre alla piazza, le botteghe degli artigiani erano a S. Teograto i luoghi preferiti per le conversazioni. Era raro che gli amici si incontrassero nella bottega del fabbro, disturbati dal martellìo sull’incudine e non favoriti dalla laboriosità del fabbro che raramente interrompeva il suo lavoro. Il posto preferito era il salone del barbiere. Il rumore delle forbici non dava fastidio anzi sembrava ritmare la conversazione. L’odore piacevole dell’alcol e del talco profumato e le sedie invitavano a trattenersi e discutere.
             C’erano a S. Teograto due saloni . Uno era di un barbiere tornato dopo vari anni da Roma che aveva fama di non adoperare la macchinetta tosatrice ma solo le forbici . Il salone di Gino era praticato dalle persone benestanti, i signori, gli agricoltori possidenti, qualche artigiano. Era in piazza, vicino al  caffè. Una grande targa scura di legno con la scritta in bianco “Salone” sovrastava tutta l’arcata dell’ingresso che d’estate era protetto da cannucce colorate. L’altro era il budello di Gennaro detto tosacani sulla piazzetta antistante la Villa, senza targa. Era frequentato da contadini e operai. Gennaro era un compagno sfegatato. In fondo al suo salone era attaccato un manifesto del Fronte popolare col viso di Garibaldi incorniciato da una grande stella.  I due saloni erano soprattutto ritrovo nel tempo libero. Quello elegante metteva a disposizione dei clienti addirittura due giornali, un quotidiano ,  il Tempo, e un settimanale, la Domenica del Corriere. Nell’altro salone erano appoggiati in fondo al locale e sotto lo sguardo di Garibaldi , su un vecchio tavolo  una chitarra e un mandolino che il barbiere ed alcuni suoi amici suonavano nei momenti liberi che per il barbiere erano molti visto che i suoi clienti si radevano da soli un paio di volte la settimana e il taglio dei capelli era poco frequente.  Questi due locali divennero la sede principale dei commenti sui colpi in testa e sulla sbarra. Dal romano era unanime la condanna di quegli atti e la speranza che tutto sarebbe finito presto con l’arresto di qualcuno. Gino, detto Giggetto er romano, alto, magro con i capelli lucidi di brillantina divisi da una riga a metà del capo, commentava serio: “A che punto siamo arrivati. Non c’è più ordine né disciplina. Dove andremo a finire?”.  Da Gennaro, invece, prevalevano allusioni con sorrisi di soddisfazione. “Come andiamo oggi, abbiamo mal di testa?” insinuava con un sorrisino soddisfatto; oppure se ne usciva con una frase del tipo : “ Penso che mi metterò a vendere un po’ di elmetti a qualche signore” o diceva al piccolo Tonino che veniva ad aiutarlo quando usciva da scuola: “Ragazzo spazzola ma sta lontano dalla testa che è di gente perbene e di lavoratori”.
         A quell’epoca era di moda a S. Teograto  che i giovani andassero in giro per strada la sera e cantassero in coro . Non era raro che improvvisassero versi sulla musica di canzoni in voga  con riferimento a fatti  particolarmente piccanti  accaduti in paese. Una sera un piccolo gruppo di giovani attraversò la piazza e la strada principale del paese cantando una canzone di successo con  versi  modificati:
    Sola se ne va per la città
    E passa tra le gente che non sa
    Che non vede dove va
    Se colpirà, chi colpirà, chi salverà.
        La sbarra non era nominata ma tutti capirono l’allusione. La leggenda della sbarra che andava in giro colpendo teste si diffuse anche nei paesi vicini ed un giorno i santesi salirono all’onore della cronaca. Solo due volte S. Teograto  era stato oggetto di un articolo sulla pagina regionale del  quotidiano più diffuso. Quando era rimasto isolato e quasi sepolto dalla neve. Rimase interrotta l’energia elettrica per più giorni, cosa peraltro frequente in quei tempi ma senza conseguenze. Per la luce venivano usate di nuovo le candele o le lucerne a olio. Delle poche radio che esistevano si poteva fare a meno. A tutto questo i santesi erano abituati ma per il giornale, forse a corto di notizie, fu ritenuto interessante, con soddisfazione del paese.  Un’altra volta la cronaca si occupò di un caso di omicidio, peraltro non misterioso: un anziano aveva fatto fuori col fucile davanti casa un vicino col quale aveva litigato e poi si era tolto la vita, con grande spavento dei presenti alla lite. Ora un titolo che ai santesi parve grande richiamò l’attenzione: “ Una sbarra semina terrore”. Nell’articolo, l’ignoto cronista
(erano riportate solo le iniziali: c.s. e furono in molti a tentare di capire se si trattasse di uno
 del paese) riferiva, non senza  ironia, sulle teste colpite e sulla misteriosa sbarra che “secondo i fantasiosi contadini del paese” girava di notte menando botte. Si raccontava anche che molti non uscivano più di casa la sera e, se era proprio necessario, si facevano accompagnare. Non si facevano i nomi, ognuno era libero di pensare a chi voleva. L’articolo riferiva  pure di un signore del luogo che anche di giorno portava il cappello imbottito per proteggersi la testa.

 

3- Un consiglio.

            A casa nostra non si parlava della sbarra. Una sola volta sentii mia madre che ne parlava con mio padre, una sera tardi quando eravamo tutti a letto. Non riuscii a capire le parole della mamma ma la secca risposta di mio padre: “Sono cretinate, non vale la pena di parlarne ed è meglio non entrare in queste cose. Lasciamole alle teste calde, noi pensiamo a farci i fatti nostri”. Una sera  mio fratello si lasciò sfuggire durante la cena: “ Questa sbarra è proprio un fenomeno. Ce ne vorrebbero tante”. Gli arrivò una pesante sberla di mio padre che gli ordinò: “ Non permetterti mai più di parlarne altrimenti te la farò ricordare sinché campi”. Mio fratello Pietro  aveva 14 anni, tre più dei miei. Credo che si fosse sentito molto umiliato da quel rimprovero. Nostro padre ricorreva raramente alle mani: bastava una sua occhiata per paralizzarci. Pietro smise di mangiare e si rifugiò nella nostra piccola stanza. Mia madre non fiatò. Il nonno finì di mangiare e andò a sedersi sulla sua bassa sedia impagliata nel suo angolo vicino al camino acceso. Nostro nonno paterno viveva con noi: la casa dove vivevamo era sua, frutto degli anni passati in America. Suo era anche il campo che mio padre coltivava. Da quando era morta la nonna  era diventato taciturno. Mi sembrava molto vecchio, magro, curvo col volto coperto di rughe, le palpebre rosse, il grosso naso gocciolante e quasi cadente sulla bocca priva di denti. Avevo l’impressione che non avesse più sentimenti, che tutto gli fosse indifferente quasi gli si fosse rinsecchito anche il cuore. Passava l’estate  seduto davanti casa, a volte spostandosi davanti alla bottega del falegname. Anche là rimaneva a lungo senza parlare, con la mani appoggiate al bastone che teneva tra le ginocchia e il cappello calato sugli occhi. A chi gli chiedeva come stesse, rispondeva: “ Come il prosciutto, un po’ magro un po’ grasso”. L’inverno lo trascorreva quasi completamente davanti al camino, stuzzicando col bastone la legna che bruciava e sputando sulla brace. Quasi mai si toglieva il cappello una volta nero, ora   scuro vecchio, logoro, segnato dal sudore.
           Un paio di giorni dopo la scenata di nostro padre, il nonno chiamò mio fratello. Credo che avesse un debole per lui, forse perché portava il suo stesso nome. “Pietro, vieni qui”. Eravamo noi tre. Io ero già da tempo seduto accanto al fuoco sul piccolo banchetto di legno che era la mia passione e col quale riuscivo a mettermi sotto il camino per scaldarmi meglio. “Siediti un momento qui vicino”, gli disse indicandogli un altro banchetto. Cominciò a picchiettare col bastone sulla legna che ardeva. Piccole nuvole di scintille crepitanti salivano verso il camino.
            “ Non te la devi prendere per quello che ti ha detto tuo padre. Alla tua età ricevere uno schiaffo brucia molto ma lui non è cattivo. Vuole che non ti immischi in cose che potrebbero danneggiarti. Tu sei ancora un ragazzo e non puoi renderti conto di quante conseguenze possono avere le parole. Non quelle che si dicono qui in casa ma è facile che esse vengano ripetute anche fuori. Non hai idea di quanti ascoltano le parole e le riferiscono per accaparrarsi simpatie. Non costa molto pronunciare parole ma le conseguenze possono essere importanti”. Il nonno si rivolgeva a mio fratello quasi io non ci fossi. Forse mi riteneva troppo piccolo per capire ciò che gli voleva comunicare. Pietro ascoltava senza interrompere il nonno che continuava a rompere la brace col bastone, ogni tanto sputando sul fuoco.
            “ Ti voglio raccontare un fatto che forse ti convincerà più delle parole e dei consigli. Tanti anni fa, quando ero ancora molto giovane e tuo padre aveva più o meno 5 anni, tornando a casa una domenica vidi che Giovanni- cioè vostro padre- aveva in mano una moneta da due soldi.
‘Chi te l’ha data?’ gli chiesi.
‘ Don Donato’.
‘Come mai?’
 ‘Ogni domenica quando passo davanti casa sua lui è affacciato alla finestra. Lo saluto: ’Buongiorno don Donato’ e lui mi butta una moneta da due soldi’.
Io a quei tempi ( prima della grande guerra) facevo parte del circolo degli operai che un santese aveva organizzato dopo essere tornato dalla Francia ed averci parlato con entusiasmo del socialismo. Per noi era una novità sentire certe affermazioni. All’inizio non gli davamo retta poi, forse per l’abilità con la quale egli parlava forse perché quei discorsi ci incantavano, formammo un gruppo di persone sempre più interessate alle idee socialiste e fondammo un circolo. Don Donato era il padre dell’onorevole. Sempre sorridente, gentile con tutti, alla mano. Possedeva molte terre e dava lavoro a molti, contadini e braccianti. Anche io ed i miei  quattro fratelli lavoravamo spesso per don Donato. Era il presidente del circolo dei signori, più grande del nostro e molto elegante a quel che si diceva.
            ‘Se tu fai come ti dico io, ti prometto che avrai tanti più soldi’ dissi a Giovannino. Era un bambino molto simpatico e vispo.
‘ La mattina di domenica prossima quando passerai sotto la finestra di don Donato non devi dirgli: Buongiorno don Donato ma queste parole. “ Faremo fuori tutti i pescecani”. Passò la settimana ed io avevo dimenticato quello che avevo detto a Giovannino, credo più per gioco che sul serio. I bambini forse non pensano che i grandi possano parlare per gioco e prendono sul serio ogni loro parola. Quando tornai a casa a mezzogiorno, lo trovai in lacrime.  
  ‘Che hai fatto?’ gli chiesi.
 ‘ Io ho fatto come mi hai detto. Sono passato sotto la finestra di don Donato e invece di dirgli buongiorno gli ho detto: ‘ Faremo fuori tutti i pescecani’ ma non mi ha buttato il soldo come le altre volte.
            ‘Non piangere- lo consolai - vedrai che oggi avrai tanti soldi ’.
            Il pomeriggio lo portai con me al circolo, nell’ora di maggior affollamento. C’erano molti amici nei vari tavoli a giocare a carte.
            ‘ Amici, un attimo di attenzione’ gridai ‘sentite che cosa vi racconta Giovannino’.
Egli tra le lacrime raccontò della moneta che gli buttava don Donato al suo saluto e della delusione di quella mattina. Ci fu un urlo di entusiasmo e qualcuno applaudì qualche altro gridò: ‘Bravo!’.
            ‘Amici- dissi- non possiamo deludere Giovannino. Dobbiamo ricompensarlo e fargli capire che possiamo fare a meno dei signori’.
 Feci un giro col cappello e potei consegnare a Giovannino varie monete di rame.
            Qualcuno probabilmente lo raccontò a don Donato. Da allora né io né i miei fratelli fummo più chiamati a lavorare nelle sue terre. Io andai in America, per 3 anni. Tornai in tempo per essere mandato sul Carso a combattere. Come vedi, poche parole bastarono a privare una intera famiglia del lavoro. Credimi, ai signori le sbarre non possono fare molto male. Loro hanno le terre e tutto il resto, loro comandano. Sta sicuro che si ricorderanno di tutti quelli che ora vanno esaltando questa favola della sbarra. Le favole passano, ci illudono. Vedi questa cenere?” Col bastone il nonno smosse il mucchio di cenere che era dietro la brace sollevando una nebbiolina grigiastra. “ Ieri era brace ardente capace di bruciarti una mano al solo avvicinarla. Ora è polvere morta. Domani della sbarra nessuno si ricorderà più ma sta certo che chi conta non dimenticherà le persone che oggi vanno esaltando una sbarra che chissà come colpirebbe le teste di qualcuno di loro. Un giorno ringrazierai tuo padre se è riuscito a farti  stare fuori da queste stupidaggini “.
            Non so quanto Giovanni tenesse conto delle parole del nonno. Con me parlava poco: quei tre anni di differenza erano una barriera alla nostra età.

 

 

4- Che fare?

 

            L’on. Ferdinando  Pettini  aveva voluto arrivare in paese di sera, per non dare nell’occhio. Soltanto le sue due sorelle e don Alfonso sapevano del suo arrivo. Appena il tempo di lavarsi e prendere un caffè, poi era andato dal sindaco. Egli conservava, malgrado la sua carica, un profondo rispetto per don Alfonso che non derivava solo dalla differenza di età. Era sua intenzione capire meglio la situazione del paese e trovare una soluzione, di qualunque tipo purché ponesse fine a quelle dicerie. Si era meravigliato che don Alfonso non fosse ancora riuscito, col suo prestigio e la sua abilità a dipanare quella piccola ma fastidiosa matassa. Gli dava molto fastidio che il suo paese fosse finito nella cronaca dei giornali in una maniera così ridicola.
            Aspettò sino alle nove poi, sicuro che ormai le strade fossero deserte, andò a piedi a casa di don Alfonso. Preferiva non essere visto. Aveva dimenticato che il suo paese aveva occhi sempre aperti e che le notizie anche piccole si diffondevano come il polline dei fiori: rapidamente e ovunque senza rumore.
            Del colloquio è possibile riferire ciò che se ne seppe. Il resoconto fu opera di Paolina, detta Parolina, la donna che aiutava nelle faccende di casa. Ignorante ma molto intelligente ed estremamente curiosa, riusciva a sapere tutto sin nei minimi particolari. Ovviamente, nessuno avrebbe giurato che tutto ciò che Paolina andava raccontando (per carità: solo a qualche amica fidata) fosse esattamente corrispondente al vero. E nessuno pensava di chiedere a Paolina come avesse saputo tutto ciò che raccontava.
            L’onorevole manifestò le sue perplessità e i suoi timori.
 “ Non so come si sia potuti arrivare a fare di una piccola cosa una specie di scandalo rimbalzato sui giornali e come sia stata montata una leggenda facendo di un pezzo di ferro quasi una sorte di eroe”.
“Non te lo saprei dire- fu la risposta di don Alfonso- ma credo che alla base di tutto ci sia un disagio di molti nato dalla mancanza di lavoro e dalla miseria. Gli eroi non servono ad altro che ad illudere la gente”.
“Dobbiamo impedire che questa cosa vada avanti. Le forze dell’ordine debbono trovare i responsabili. Basta anche mettere dentro qualche sospetto, servirà a spaventare. Ad esempio, quel Carlo che chiamano falcemartello  mi dicono che può essere benissimo l’autore di tutto o che almeno sa chi è stato”.
“Non farei molto affidamento sulle forze dell’ordine. Il maresciallo è un brav’uomo che non credo abbia esperienza di indagini. In quanto ai tre carabinieri, sono contadini con la divisa. Tu lo sai quanto me, entrano nell’ Arma  per evitare il lavoro dei campi.  Hanno appena la licenza elementare. E non mi sembra il caso di chiamare altre forze dell’ordine, da fuori: non conoscono il paese, farebbero molto rumore ma non arriverebbero ad alcuna conclusione. Otterremmo l’effetto opposto., dando troppa importanza a delle dicerie. Secondo me c’è un solo modo per rispondere a queste provocazioni: lasciarle morire da sole, senza dare loro grande peso. Dopo poco tutto viene dimenticato. L’importante è avere pazienza e non innervosirsi. In quanto a Carlo, ti prego di non ascoltare le chiacchiere dei più accesi.  Sono sicuro che lui non c’entra in questa faccenda. Purtroppo chi parla troppo si prende colpe anche degli altri, di chi agisce senza farsi notare. Certi uomini sono come i parafulmini. Del resto, è stato già sentito dai carabinieri . Anche se sapesse qualcosa, non parlerebbe: è troppo orgoglioso“.
“Qualcuno mi ha detto che tu hai simpatia per questo Carlo, ad esempio lo preferisci ad altri braccianti . A dirtela tutta, qualcuno dice anche che tu hai qualche simpatia per i rossi. Ovviamente non ci credo, almeno per quest’ultima voce”.
“In quanto alla mia simpatia per i rossi, lasciamo stare: non vale la pena di parlarne, credo. Temevo, semmai, d’essere accusato del contrario, essendo stato podestà. Ma io non appartengo a quella categoria di persone che ritengono il bene e la ragione tutti da una parte ed il male e il torto tutti dall’altra. Cerco di essere pratico e mi sforzo di valutare il punto di vista degli altri. Naturalmente, solo se li ritengo in buonafede. Non mi sento un fanatico.
Non mi sento nemmeno un politico vero. Forse proprio per questo sono stato prima podestà
 e poi sindaco senza che nessuno se ne sia meravigliato o mi abbia criticato”.
       Accese un’altra sigaretta. “In quanto a Carlo, ti confesso che mi è simpatico e non saprei dirti perché. Beve, parla troppo. Sembra violento ma è una specie di bambino. Uno che fa casino ma non è capace di fare del male. Bisogna guardarsi da  quelli che non urlano.  Credo che anche il Padreterno a sentirlo bestemmiare tanto non se la prenda: sa che così fanno gli uomini che cercano  di apparire forti  e non lo sono. E poi lego Carlo a suo padre, forse per la notevole somiglianza. Ho un ricordo di suo padre che risale a molti anni fa, quando io ero ragazzo. Venne a mietere da noi, con altri. Una paranza di forti e abili mietitori. Quel campo era grande. Io ero con mio padre , sotto la vecchia quercia. Faceva un caldo afoso. I mietitori chini con le loro falci si allontanavano da noi sino a diventare piccoli come puntini; poi tornavano verso di noi. Peppe (così si chiamava il padre di Carlo) chiedeva quasi ad ogni passata un bicchiere di vino a mio padre che finì col dirgli: “Sta attento che ti fa male bern
e troppo”. Peppe passava per forte bevitore, come adesso Carlo. Si vede che certi caratteri si trasmettono da padre in figlio. Peppe forse  prese la considerazione di mio padre come un rimprovero tanto più per la fama di bevitore. Guardò fisso mio padre e gli chiese: “Me lo fai un piacere?” Raccolse un pugno di terra. “Buttaci un po’ di acqua” disse a mio padre. Fece una palla di fango. “Per favore mettilo dentro la tua camicia. Non chiedermi perché, è un favore”. Mio padre lo accontentò e mise quella palla di fango sotto la camicia, sulla pelle. Peppe fece una eguale palla e la mise sotto la sua camicia. Riprese a mietere. Si allontanò mietendo, diventò di nuovo un puntino come gli altri. Poi tornarono verso di noi con le loro falci scintillanti al sole. Di nuovo si allontanarono e di nuovo tornarono verso di noi. Quando Peppe fu vicino a mio padre, gli chiese:  ”Mi dai quella palla di terra?”. Mio padre sbottonò la camicia, prese la palla di fango e gliela consegnò. Peppe sbottonò la sua camicia, introdusse la mano e tirò fuori soltanto terra disciolta nel sudore: la sua palla di fango si era disfatta. “Vedi- disse- la mia palla non esiste più, il sudore abbondante l’ha disciolta. Il vino che bevo se ne va in sudore, non arriva nemmeno alla testa”. Mio padre sorrise ma io, ragazzo, rimasi colpito da quanto era accaduto. Con l’esperienza, mi sono convinto che ci sono persone irresistibilmente attirate per loro natura dal vino- alcune sino a rimanerne vittime, rovinando se stesse e i familiari- così come altre sono astemie ma quel fatto, il gesto di Peppe che mostrava la sua palla trasformata in poltiglia disciolta dal sudore mentre noi sedevamo all’ombra della quercia mi  andò direttamente in quella parte della memoria riservata ai ricordi duraturi.  Da allora ho sempre guardato con simpatia Peppe. Forse la stessa simpatia l’ho riversata sul figlio. Ma, visto che siamo in argomento, voglio farti una confessione. Ho un debole per quelli che vengono considerati dai benpensanti quasi dei maledetti da Dio. Per me i maledetti da Dio ( e certamente nessun prete accetterebbe questa definizione blasfema) non sono i perdenti ma i perdenti che non accettano di esserlo.  Perdente è la maggioranza delle persone. Non sempre sono dei deboli. Si perde per molte ragioni ma chi ha forza d’animo sa accettare di perdere, sa incassare. Il perdente debole non lo accetta. Del resto, è la stessa cosa per chi vince. Il vincitore debole diventa prepotente, vuole ostentare il suo potere e schiaccia chi è sotto di lui. Il perdente debole non accetta di esserlo e finisce col mettersi contro tutti. Anche e per primo contro se stesso. Ad esempio si dà a bere. Col vino in testa ha l’illusione di essere più forte ed è soltanto più malvisto e più fastidioso. La sua testa ronza in un mondo diverso. I freni si allentano e urla, litiga. Ma si sente più forte, anche se cade a terra, anche se il giorno dopo capisce che sta peggio di prima. La miseria genera spesso perdenti. Sei mai stato in una casa dei nostri contadini? Un paio di stanze, spesso  con la convivenza dell’asino o della capra. Senza gabinetto, con l’acqua da risparmiare perché le fontane sono poche e non c’è tempo di fare la fila. Non sanno come sarà la stagione, se avranno abbastanza raccolto per sfamarsi e togliersi qualche debito. Vivono affidandosi alla speranza, che il tempo sia propizio e il grano venga su bene che non venga rovinato dai temporali che possano trebbiarlo e portarlo a casa senza pioggia che poi possano arare e seminare di nuovo prima del maltempo che il prezzo non sia troppo basso e che gliene resti abbastanza dopo aver pagato il padrone delle terre. Allevano galline ma per vendere le uova. Guarda i loro vestiti: è raro che non abbiano pantaloni rattoppati alle ginocchia e al fondo. L’unico lusso il tabacco ma non tutti hanno le cartine
 e lo arrotolano nella carta di giornale. Molti hanno un odore misto di sudore, tabacco e vino. Li riconoscerei ad occhi chiusi tra mille persone. Guarda le loro mogli sfinite dal lavoro e i loro figli: quanti non vanno a scuola e quanti appena usciti da scuola vanno a lavorare. Per le donne la vita è ancora più dura. Vanno nei campi come gli uomini e quando tornano la sera debbono accendere il fuoco e preparare la minestra. Quando non vanno in campagna debbono preparare il pane o recarsi a lavare i panni al ruscello. E sono fortunate se il marito ha un po’ di riguardo verso di loro.  Come non cedere a chi promette  pane e lavoro? Non meravigliamoci se ci sono quelli come Carlo che si ubriacano e finiscono col picchiare moglie e  figli. Carlo è un buon lavoratore. E’ tra i pochi che quando torna dai campi non sale sull’asino  lasciando la moglie a piedi affianco all’asino. La fa montare  sull’animale e lui va a piedi. E quando la moglie va al ruscello a lavare i panni  quando è ancora buio per prendere il posto migliore,  lui  l’accompagna e la lascia e va  nei campi solo quando fa giorno. Sì, ti confesso che ho un debole per queste persone. Evito di condannarle. A volte mi sento un po’ in colpa per il mio benessere. ”.
           Fu interrotto da due colpi alla porta. Entrò Paolina:
           “Scusatemi ma vostra madre ha chiamato da sopra. Vuole vedervi”.
           “Vengo subito” le ripose il sindaco. Poi rivolto all’onorevole:
           “Faccio in un attimo” e a Paolina:
           “Offri all’onorevole quel liquore alle amarene che hai preparato questa estate”, all’onorevole: “ E’ una squisitezza”.
            “Grazie ma sono astemio”
           “E’ poco alcolico. Non sai cosa ti perdi” e don Alfonso uscì dalla camera. Paolina versò in un bicchierino il suo liquore, malgrado il rifiuto dell’ospite:
           “ Io ve lo poggio sul tavolo e faccio il mio dovere, poi voi fate come vi pare”, disse uscendo. Paolina non aveva simpatia per l’onorevole. Dalla poltrona sulla quale era seduto egli cominciò a guardare l’arredamento dello studio, per passare il tempo di attesa. L’arredamento delle case di S. Teocrato rispecchiavano più la classe sociale di appartenenza che i gusti personali. Quello delle case dei contadini era molto uniforme e semplice. Ogni oggetto rispondeva ad una esigenza elementare: il tavolo con le sedie impagliate, la conca di rame stagnato per la provvista d’acqua, pochi utensili della cucina appesi a una striscia di legno fissata alla parete, il cassone del grano. Pochi ornamenti: un quadro a tema religioso, un calendario. Le case degli artigiani e dei commercianti denotavano il gradino sociale più elevato, dai pavimenti in ceramica alla cucina economica in ferro smaltato, ai mobili più rifiniti, a qualche quadro riproducente paesaggi, alle foto esposte sul comò. Le case dei signori erano sostanzialmente di due tipi. I pochi signori da molte generazioni i cui figli erano quasi tutti professionisti – avvocati, medici - avevano case con mobili antichi, librerie alte con libri rilegati in pelle, quadri a olio, poltrone in pelle. Le loro case, grandi con massicci muri in pietra, emanavano nelle stanze odori particolari che le caratterizzavano; d’estate erano fresche e silenziose come chiese. I signori nuovi, quelli che erano riusciti a fare il salto sociale da una o due generazioni, avevano arredi più simili a quelli dei commercianti ma con mobili più grandi, con poltrone e divani. Le loro case denotavano le loro aspirazioni ma mostravano che occorreva ancora molto tempo per cancellare il passato ed essere annoverate tra le vere case signorili, come le pipe ancora troppo nuove per essere impregnate degli aromi che penetrano molto lentamente.
         Lo studio di don Alfonso, colmo di libri, emanava l’aroma del tabacco misto al limone. In un angolo, una cigogna impagliata posata su un alto piede di noce scuro sembrava fare la guardia.
            “ Scusami ma mia madre non riesce ad addormentarsi se non vado a darle la buonanotte. Ha 92 anni, non si alza quasi più. E’ ancora lucida di mente ma ha le sue manie. Se non passo a darle la buonanotte continua a chiamarmi”. Don Alfonso sorrise:
            “Mi ripete ogni volta: “Come sei bello figlio mio e come ti mantieni giovane”. Nessuno
la convincerebbe del contrario. Siamo attaccati alle nostre idee. E’ convinta che tutti la debbano ancora servire e che lei non debba nulla a nessuno  quasi fosse un onore per i poveri servirla. Non si rende conto che i tempi sono cambiati e che cambieranno sempre più. Noi, invece, non abbiamo la sua età e ce ne rendiamo conto. Tu certamente più di me, non solo per essere più giovane ma per la tua preziosa esperienza professionale e politica”. Guardò il bicchierino ancora pieno:
            “Vedo che non hai assaggiato il liquore di Paolina”
            “Non sopporto gli alcolici, come ti dicevo prima”
            “Io non sono un bevitore ma un buon bicchiere di vino quando mangio e la sera un bicchierino di questo liquore di amarene mi tirano su. Col passare degli anni mi vado persuadendo che spesso quello che ci era sembrato importante comincia a diventare secondario e piccole cose prima insignificanti diventano importanti. Ma torniamo al nostro problema.
“Sì, vorrei tornare all’argomento che ci interessa”, lo interruppe don Ferdinando.
“E’ vero e ti chiedo scusa di  essere andato fuori  tema, come si diceva a scuola. Ma non del tutto, credo. Ho capito che bisogna cercare sempre di mettersi nei panni degli altri. Che il nostro compito – voglio dire di chi amministra e si interessa di politica- è aiutarli quanto è possibile e capire che per loro è bello sognare e credere che qualcuno darà loro pane e lavoro. Questo promettono i nostri avversari e ne traggono vantaggio anche se al posto nostro non sarebbero più capaci di noi di dare lavoro a tutti”.
Don Alfonso si accese la centesima sigaretta. Le sue dita erano scure di nicotina e odoravano di limone col quale spesso se le strofinava nel tentativo di renderle più chiare. Avevano finito con assumere un colore giallastro ed emanare un piacevole odore di tabacco  aromatizzato dal limone, come il suo studio.
“Quando si parla di rossi bisogna distinguere tra chi lo è per puro amore di ribellione e chi spera in una giustizia sociale che crede di trovare da quella parte politica. Non dobbiamo ritenerli dei nemici pericolosi e tantomeno dei delinquenti. Diciamo che a sinistra abitano molte teste calde e molti che aspettano il giorno della rivoluzione. I nostri sono spesso più tranquilli, più rispettosi delle regole. Insomma, quelli che noi definiamo gente perbene.  Ma anche più ipocrita. Ti prego di non volermene se vado ancora una volta fuori argomento ma vorrei accennare ad un problema del quale da tempo volevo discutere con te, sicuro che mi darai ragione e risolverai la questione molto meglio di quanto sia capace di fare io. Tu sai certamente che ad alcuni dei nostri contadini ed operai è stata impedita l’emigrazione in America perché qualcuno ha scritto lettere anonime denunciando che sono comunisti “.
 L’onorevole fissò lo sguardo sul pavimento:
“Non penso che le lettere anonime siano la causa del mancato espatrio” commentò.
” E’ più probabile che siano le informazioni dei carabinieri. Tu sai che per avere il rilascio del passaporto occorrono le informazioni dei carabinieri ed è probabile che esse arrivino anche al Consolato americano. Ad ogni modo, mi sembra giustificato che a queste persone venga impedita l’emigrazione, visto che gli americani non vogliono che nella loro terra entrino i comunisti”.
“ Ciò che vogliono e non vogliono gli americani a noi interessa poco”, rispose don Alfonso, “Noi abbiamo vissuto per anni in questo nostro Paese col divieto di opinione e sappiamo che non solo non è un bene ma che ciò alla fine si ritorce contro chi impedisce di pensarla come si vuole. Il pensiero è come l’aria, non vuole impedimenti. Più la comprimi più aumenti la sua pressione e prima o dopo finisce con uno scoppio. Noi non abbiamo interesse a tenere qui gente che non ha lavoro e vive con la famiglia nella miseria. O creiamo lavoro o favoriamo l’emigrazione. Del resto, non ti sembra un pericolo avere qui persone esasperate e non ti sembra anche più vantaggioso  allontanare chi rinforza i nostri avversari politici?”.
            Quest’ultima osservazione del sindaco sembrò molto persuasiva all’onorevole.
            “Vogliamo impedire fatti come quello del quale avevamo iniziato a discutere ed anche peggiori? Evitiamo di creare un muro per questa gente che vuole emigrare. Anzi favoriamo il loro espatrio.  Dà retta a me: a noi che cosa importa se arriva in America qualche comunistuccio? Credi forse che quel grande paese ne avrà danni? Io sono sicuro che, anzi, molti cambieranno idea. Torneranno qui con dollari e con idee cambiate. Tu credi che un operaio o un contadino è comunista solo perché ama la giustizia sociale? Le belle idee sono figlie della pancia piena. Chi ha la pancia vuota non si può permettere questo lusso. Se tutti potessero diventare benestanti, non ci sarebbero quasi più comunisti . A chi non ha una casa e un po’ di terra  fa piacere pensare che qualcuno gliele dia magari togliendole a chi ne ha più. Ma sta certo che appena diventa un piccolo padrone cambia del tutto opinione. Gli idealisti sono pochi“.
            “Non sono d’accordo. Credo che ci siano molti idealisti. Io, per esempio, mi sento uno di loro”.
            “Non mi sono espresso bene. Gli idealisti sono rari tra chi ha problemi di sopravvivenza. Tu credi che quei pochi dei nostri paesani che sono andati volontari in Africa o in Spagna siano stati mossi da idealismo? Sta sicuro: ci sono andati solo per la paga, per guadagnare e sfamare la famiglia. Se noi riusciamo a dare lavoro o in qualsiasi modo un mezzo di sussistenza ai nostri contadini e operai, cambieranno opinione. Non ci serve fare tanti discorsi sulla Russia, sulla libertà. Dobbiamo offrire un aiuto materiale di qualsiasi tipo, lavoro, sussidio o altro”.
 Don Alfonso accese un’altra sigaretta. Riprese:
            “Scusami, sono andato di nuovo fuori tema però ci  tenevo a dire queste cose a te che hai prestigio. Forse una tua parola bloccherebbe la penna di quelli che si divertono a scrivere lettere anonime. Sì, lo so che tu non c’entri per niente e non li conosci – lo prevenne don Alfonso- ma basta che tu ne parli in maniera generica e ti staranno a sentire. Sei tu la maggiore autorità politica e a te danno retta”.
In realtà l’onorevole non godeva di molta simpatia in paese. Era ritenuto quasi un estraneo. Era cresciuto lontano dai suoi coetanei. Mai aveva giocato per strada con gli altri ragazzi. Era partito per studiare sin dalle scuole medie che mancavano a S. Teograto. Il suo carattere schivo, l’incapacità di ridere e sorridere, il suo aspetto troppo signorile ne facevano  un estraneo. Tuttavia il prestigio che aveva avuto il padre, la ricchezza ereditata e la sua rapida carriera professionale da avvocato e poi  in politica  ne avevano fatto il personaggio più riverito del paese.
                La mattina dopo, don Ferdinando ripartì.      

 

5- Il Consiglio

            Don Alfonso aveva pensato di riunire il Consiglio comunale senza mettere all’ordine del giorno la faccenda della sbarra, cosa che gli sembrava priva di senso, ma con l’intenzione di parlarne e con la speranza di finirla con quella faccenda. Voleva tentare qualche soluzione che mettesse tutti d’accordo. Aveva pensato di far costruire una fontana con abbeveratoio nella piazzetta proprio di fronte al cancello, sotto al grande leccio. Gli era anche venuta l’idea di avviare in Primavera un cantiere per costruire una strada interpoderale e dare lavoro a turno agli operai. Ne aveva parlato con l’onorevole Ferdinando per avere le sovvenzioni e ad alcuni consiglieri di sinistra per diffondere la notizia e calmare gli animi. La fontana dava un pò di lavoro, era utile, abbelliva la piazzetta. Soprattutto, rappresentava simbolicamente una risposta alla violenza sul cancello ed al  significato che molti avevano finito col darle. Mise all’ordine del giorno un paio di argomenti di rapida discussione per aver tempo, poi, di parlare più a lungo nella voce “varie ed eventuali “ del problema che più gli stava a cuore.
            Il Consiglio era convocato per il 6 Dicembre, giorno di S. Nicola, alle 18. La mattina era stata buia ma non fredda. Nuvole scure  si erano addensate sul paese e sulle colline, provenienti dall’Est  cariche di neve. Verso mezzogiorno iniziò a nevicare. Fiocchi grandi e leggeri volteggiavano nell’aria calma, posandosi con una danza lenta su case ed alberi, ricoprendo tutto rapidamente e dando ad ogni suono ad ogni rumore una tonalità morbida, come lontana e  ripetuta da un eco. Il bosco che copriva la collina di fronte al paese andava imbiancandosi  ed appariva come più lontano attraverso i fiocchi di neve sospesi nell’aria. Era più denso il fumo biancastro che dai camini saliva a pennacchio prima di disperdersi nell’aria fredda sopra i tetti già bianchi. I passeri si affrettavano, saltellando per strada, a raccogliere qualche pezzetto commestibile, resi coraggiosi dalla fame senza fuggire dalle rare figure nere di frettolosi passanti.  Tutti si presentarono al Consiglio, puntuali. Tutti sapevano che si sarebbe parlato della faccenda della sbarra.  Chi era desideroso di dire la sua, chi aveva deciso di stare soltanto ad ascoltare: tutti si sentivano coinvolti . Era stata accesa la stufa di ghisa a carbone. L’aria calda, satura del fumo di sigarette contrastava sui vetri della finestra con quella fredda dell’esterno, sciogliendo la neve che tuttavia andava depositandosi sul davanzale.
            Esauriti i due argomenti ufficiali, don Alfonso  accese la centesima sigaretta e riprese la parola.
“ Amici, siamo chiamati a risolvere la questione che da troppo tempo richiama negativamente l’attenzione di  molti sul nostro paese. Ci siamo lasciati coinvolgere da un avvenimento di poca importanza che, però, ha acceso gli animi. Abbiamo ben altri problemi che pensare ad una sbarra”. Fu interrotto :
 “ Non è la sbarra importante ma il merdaio che ha rivoltato facendo venire a galla la puzza come quando si rigira il letame”. 
   “ Forse hai ragione- riprese don Alfonso con  voce calma rivolgendosi a Peppe lo stagnino che lo aveva interrotto- ma è nostro dovere risolvere i problemi e non esasperare gli animi. Cerchiamo di discutere tra amici. Il nostro paese è piccolo, è povero. Non ha bisogno di liti e urla ma di lavoro e di tranquillità” “
 “Lavoro non vuol dire sfruttamento. Da noi purtroppo il lavoro manca o diventa sfruttamento del lavoratore” intervenne Michele Corso. Era l’intellettuale della sinistra. Maestro elementare, era noto per la sua vasta cultura classica oltre che per l’impegno politico. Piccolo, grassoccio, con un naso prominente , carnoso e rosso (era ritenuto un forte bevitore di vino, anche se riusciva a tollerarlo e nessuno lo aveva mai visto ubriaco)e una massa di capelli rossicci che gli copriva la fronte, ribelle ad ogni tentativo di riportarla indietro. Lui ne rideva, ripetendo: “ Sono un predestinato: il rosso mi è nato spontaneamente dalla testa”. Sorrideva spesso mentre parlava e raramente tradiva la tensione anche quando gli argomenti erano importanti. Anche la sua voce era pacata, roca. Michele sapeva parlare ma sapeva anche ascoltare. Non interrompeva, non urlava. Non offendeva, evitava riferimenti personali. Gli piaceva discutere passeggiando lentamente; spesso si fermava  quasi a sottolineare un concetto. Non conosceva solo Marx e Lenin ma anche Platone e Aristotele. Evitava citazioni, solo raramente riferiva qualche pensiero di Gramsci che era il suo prediletto.
 “ Se posso prendere la parola – si rivolse a don Alfonso che annuì- voglio dichiarare che questa piccola faccenda della sbarra non avrebbe acceso gli animi come paglia se non avesse trovato un terreno adatto costituito dalla miseria, dalla mancanza di lavoro, dalla sensazione di oppressione e di sfruttamento...” Fu interrotto dalla voce stridula ed acuta di  Tonino Spilla :
 “ Se vi sentite oppressi e sfruttati perché non ve ne andate a godere libertà e giustizia dai vostri amici di oltrecortina?”.
 “ Ognuno ha gli amici che preferisce- gli rispose Michele - Io di certo non voglio avere amici tra  quelli che sfruttano gli operai e i contadini o tra quelli che fanno la spia impedendo ad onesti lavoratori di emigrare. In quanto alla libertà, è bella solo quando la pancia è piena. Chi ha da sfamare sé e i figli non ha tempo per pensare alla libertà. Prima viene la pancia poi la libertà, prima pane e lavoro poi il resto”.
 “Perché non  mandi i tuoi amici a sfamarsi da Baffone?” era sempre la voce di Tonino Spilla.
 “Signori- intervenne don Alfonso- non stiamo qui per litigare e nemmeno per fare politica. Ci siamo riuniti per parlare tra amici e cercare di risolvere un problema che non può durare in eterno facendo dimenticare altri più importanti. Credo che si possa discutere senza litigare e lasciare fuori le recriminazioni politiche. Vorrei metterle sotto la neve che sta ancora cadendo e per questo vi invito a non perdere tempo. Non vorremo rimanere bloccati e spalarla per tornare alle nostre case. Vorrei  richiamare la vostra attenzione sul preciso argomento che stiamo affrontando. Io avrei un’idea che spero troverà tutti d’accordo”.
Non ebbe tempo di illustrare la sua idea. Un gran rumore di vetri rotti e scagliati nella loro direzione fece sobbalzare tutti. Il pavimento  fu coperto dai frammenti mentre un’aria gelida investì i consiglieri. Stando ai racconti successivi di alcuni dei presenti, il fragore non fu quello di un vetro ma dei vetri di cento finestre e l’aria fredda entrò con un soffio che sembrò l’urlo di un lupo. Ma occorre dire che i racconti  furono molto discordanti. Se alcuni forse esageravano l’accaduto  suggestionati dall’inaspettato verificarsi dei fatti, altri preferirono non parlarne o ridimensionare il tutto con alzate di spalle. Fu possibile ricostruire, con i dubbi del caso, solo in parte l’accaduto.
“Ventre a terra” urlò il Sergenticchio. Gaetano Liro era stato sergente maggiore (da qui il soprannome) ed aveva fatto la campagna d’Africa. Piccolo, magro e col viso grigio e scavato come consumato da un prolungato digiuno anche se, si diceva, mangiava tre piatti di pasta per volta, aveva una voce profonda e roca. Il suo comando non fu eseguito. Anzi, dopo i primi tentennamenti  e perplessità (molti chiedevano  “Che è successo?” “Chi è stato?”), tutti si precipitarono verso l’uscita quasi saltando i pochi gradini. Chi si diresse verso la salita chi imboccò il vico di fronte chi scese verso la piazza. Qualcuno rimase sull’ingresso della sala comunale. Don Alfonso, seguito da due consiglierei, si diresse verso la piazza . Due  anziani passeggiavano tranquilli  calpestando la neve, avvolti nei cappotti e nelle sciarpe. Assicurarono di non aver visto nessuno e di non aver udito rumori.
            I racconti che fecero successivamente i consiglieri non aiutarono a chiarire l’accaduto. Qualcuno giurò di essere uscito per primo e di non aver visto nessuna orma sulla neve.
” E’ stata la sbarra!” si azzardò a dire Nino il bidello.
 Nessuno aveva pensato alla sbarra sino ad allora.
 “ Ma che sbarra e sbarra, cerchiamo di essere seri - rispose Gaetano Tinto – qualcuno avrà lanciato una pietra da lontano fuggendo dal vico e per questo non si sono trovate impronte sulla neve”.
 “ Allora come mai dentro la sala non sono state trovate pietre ma solo pezzi di vetro? E come faceva una pietra a infrangere tutti e tre i vetri di destra della finestra?”
 “Allora possono aver usato un bastone”
 “E perché non c’erano  impronte dei piedi di chi ha usato il bastone? E come mai nessuno ha visto qualcuno fuggire?”. Ogni ipotesi accresceva confusione. Ognuno sentiva e riferiva una versione dei fatti, magari modificando qualche particolare. Chi giurava di aver visto davanti alla porta della sala consiliare un manto di neve privo di ogni traccia, chi ne dubitava  e assicurava che nella grande confusione non era stato possibile fare verifiche. Qualcuno  dei consiglieri sosteneva di aver visto poco prima che fossero infranti i vetri una grande ombra dietro la finestra  che però non sapeva descrivere mentre altri affermavano che tutti erano talmente interessati alla discussione da non essersi accorti di nulla. Insomma, fu impossibile verificare i particolari dell’accaduto.
             Il giorno successivo si presentò con un sole splendente. Mancando il lavoro nei campi, era favorita la riunione di gruppi, in piazza (la neve non aveva mai impedito di ritrovarsi in piazza) o nelle botteghe degli artigiani.
            Molti si aspettavano chissà quali altri avvenimenti o nuovi articoli sul giornale. Il Maresciallo annunciò che avrebbe riferito ai superiori ma don Alfonso lo persuase a lasciar perdere. Nei giorni seguenti non accadde nulla. Il giornale non parlò più di S.Teocrato. Venne Natale. Don Cosimo fece una lunga predica durante la  Messa principale. Il Bambino, disse, era venuto portando amore e pace agli uomini di buona volontà.
“ Noi di S. Teograto siamo gente pacifica. Amiamo il lavoro e la famiglia. Ci facciamo i fatti nostri. Ci rispettiamo. Ci conosciamo. Ad ognuno di noi il Signore assegna un compito e non tutti possiamo stare allo stesso posto. Chi ha più chi ha meno su questa terra ma non si deve invidiare. Ad ognuno un giorno verrà dato ciò che non ha avuto. La zizzania rovina il grano così gli atti di violenza e le maldicenze rovinano le persone. Solo il rispetto delle regole e delle persone ci può far sperare nell’aiuto di Gesù Bambino del quale ha bisogno ognuno di noi, compresi coloro che dicono di non credere. Alcuni predicano la violenza e pensano di impossessarsi con la forza di ciò che appartiene agli altri ma è una illusione oltre che un grave peccato. Qualcuno vuol spaventare la gente perbene. Non prevalebunt. Figli miei , affidiamoci alla Buona Novella. Gesù è nato povero in una grotta e dovettero scaldarlo il bue e l’asinello. Prendiamo esempio da lui accettando il peso anche della povertà e non cedendo a Satana che ci vuol corrompere come provò senza successo con nostro Signore”.
 Il discorso di don Cosimo durò a lungo su questo tono, monotono quanto vano, diretto a chi, frequentando la chiesa, non avrebbe dovuto aver  bisogno di quei moniti.
           Passarono giorni e mesi. Nulla più accadde. In Primavera iniziarono i lavori di un cantiere per costruire una strada di campagna sotto la direzione di Nino Vaccari. Furono chiamati a turno gli operai, questa volta senza discriminarli sulla base delle loro inclinazioni politiche. Tra i primi assunti fu anche Carlo falcemartello. Fu costruita la fontana con l’abbeveratoio, proprio sotto il grande leccio e di fronte al cancello con tutte le sue sbarre al loro posto. Tutta in pietra locale: fu l’ultima opera in pietra prima che il cemento prendesse il sopravvento. Le donne della piazzetta venivano a riempire le loro conche, i ragazzi di bottega del barbiere del falegname e del fabbro non dovevano recarsi più molto lontano a riempire le brocche,  la sera i contadini vi portavano ad abbeverare muli cavalli e asini. I santesi la chiamarono la fontana della sbarra.
            Più di qualcuno in paese benedisse la sbarra e affermò che a volte non tutti i mali vengono per nuocere. Fu anche notato, senza che si riuscisse a darne una spiegazione, che non ci furono più comunisti che non riuscirono ad emigrare in Canada.

Oggi la piazzetta non è come a quei tempi ormai lontani. Molte case sono state elevate di un piano, le pietre secolari delle facciate, trasportate dai fianchi della montagna, squadrate dagli scalpellini sono state coperte di intonaci colorati che sembrano mettere in lite le case. Non ci sono più stalle e botteghe. Quella del falegname è diventata un negozio di alimentari, il budello del barbiere, annesso ad un altro locale, è l’ingresso di un pub molto paesano. Il figlio del vecchio fabbro non  prepara falci e non ferra  gli asini. Ha messo da parte l’incudine e la forgia per il fuoco, costruisce balconi e finestre in profilati metallici. I portoni di legno sono stati sostituiti da rumorose saracinesche più pratiche per i locali che non sono più stalle ma garages. Le case sono quasi tutte chiuse, salvo l’estate quando i santesi emigrati al Nord o all’estero o i loro figli tornano  per qualche settimana. I gradoni in pietra della strada che porta alla piazzetta sono stati coperti di bitume per  permettere alle auto di salire.
Ora ci sono due guardie comunali che si chiamano vigili urbani come nelle città. Non hanno più il problema di sorvegliare i giochi dei ragazzi che sono quasi scomparsi (i giochi ed anche i ragazzi). E’ raro vedere i vigili  in giro per il paese e mai penserebbero di interessarsi delle tante auto in divieto di sosta o dei motorini che scorrazzano sino a tardi. Il più anziano di loro ha il compito di aprire il cancello della  Villa, compito poco gradito perché lo costringe ad essere puntuale come esige il nuovo sindaco. Scomparse le galline, rinchiusi i pochi bambini nelle case a vedere la TV,  la piazzetta è occupata da auto e motorini.
La fontana esiste ancora ma non dà più acqua che ognuno ha in casa. L’abbeveratoio è pieno di sporcizia e in autunno delle foglie del vecchio leccio.
            La chiamano ancora la fontana della sbarra ma nessuno ne ricorda più la ragione.

Nicola Picchione

Dicembre 2001.