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LUCE BUIO E FANTASIA
Intorno al focolare
Sappiamo che il progresso tecnologico ha modificato la nostra vita rendendoci allo stesso tempo più liberi ma anche più dipendenti. L’elettricità e la luce artificiale, la radio e la TV hanno cambiato anche il nostro modo di rapportarci non soltanto con il mondo e conoscerlo meglio ma anche con familiari e amici e conoscerli meno.
Bonefro ebbe presto l’elettricità, prima di tante città. Già nel 1910 (come ci informano i libri di Michele Colabella) esisteva una rudimentale illuminazione pubblica, anche se a quell’epoca le donne che andavano alla prima messa quando era ancora buio, per vedere la strada- o i vicoli con strade rudimentali- dovevano ancora portarsi un tizzone acceso che agitavano davanti a loro per ravvivare la brace e fare un po’ di luce. Lo depositavano davanti alla chiesa per riprenderlo dopo. Nel dopoguerra l’uso dell’elettricità era ancora limitato. Non esistevano elettrodomestici e solo pochi avevano una radio (mio padre ne comprò una nel 1937, una Philips che ancora conservo e che porta una targa fascista con la dicitura: “prodotto autarchico”; costava 1000 lire- quando la canzone recitava: potessi avere mille lire al mese- e la pagò a rate). Solo negli anni 50 venne di moda il radiogrammofono da esibire come segno di benessere, col mobile bar luccicante di specchietti quasi a moltiplicare le poche bottiglie che racchiudeva. In molte case, nel dopoguerra, l’erogazione dell’elettricità era limitata: in alcune c’era ancora il collegamento a cottimo, senza contatore; era sufficiente per qualche lampadina a basso consumo come quelle dette a carbone con una luce giallastra, fioca. I lampioni nelle strade erano appesi a un cavo sotteso da lato a lato della strada, da un muro di casa all’altro: al centro un piatto di ferro smaltato che proiettava sulla strada una debole luce oscillante al vento che animando il piatto faceva ondeggiare le ombre ed emetteva cigolii e rumori da film del terrore. I lampioni erano molto distanziati tra loro. Era ancora possibile osservare in paese la meraviglia del cielo stellato e riconoscere il grande e il piccolo carro, la stella polare, la via lattea.
Spesso d’inverno l’elettricità veniva a mancare, bastava un piccola tempesta di neve o un temporale. Di solito la riparazione richiedeva poco tempo ( z’ V’ngenz’ u’ l’ttr’cist’ era pronto ad accorrere alla cabina) ma a volte mancava per interi giorni. Poco dopo la guerra era stato aperto il cinema nell’allora ultima casa del paese ( era di’ Colelall’). Ne accenno solo per riferire che cosa accadeva quando veniva a mancare la corrente durante la proiezione ma non sarebbe male scriverne a parte e più a lungo. Ricordo che era una grande attrattiva per ragazzi ed anziani che ne godevano anche se erano pronti alle critiche peraltro limitate a giudizi secchi: in genere le commedie erano ‘na mrechènat’ , le tragedie nu meton’; si salvavano i film che commuovevano, quelli attualmente chiamati melò (Catene, I figli di nessuno, La cieca di Sorrento, La muta di Portici), quelli storici e pseudostorici, quelli d’avventure. Torniamo all’elettricità. D’inverno erano frequenti le interruzioni della proiezione; sollevavano un coro di protesta tra i ragazzi che iniziavano a urlare a ripetizione: luce-luce! Se tornava poco dopo i ragazzi avevano quasi la suggestione che il loro reclamare fosse stato efficace ma in realtà quel gridare era un piccolo spettacolo in attesa che riprendesse la proiezione.
Se invece mancava la luce nelle case, poco male. Spesso si faceva anche a meno di accendere la candela o a luc’ dell’ olio bon’. D’estate il contadino andava a letto presto per alzarsi prima dell’alba. D’ inverno, con le notti più lunghe e il minor lavoro, si rimaneva seduti intorno al fuoco. L’anziano raccontava ai piccoli di tutto: qualche cunt della sua vita militare magari in Africa. I ragazzi gli credevano anche se abbelliva il racconto con avventure inventate. Solo uno, a Bonefro, aveva la fantasia di raccontare episodi del tutto incredibili, capace però di offendersi se non qualcuno ne rideva. Così raccontava, tra l’ altro, che un giorno il generale Spadaccino (Bonefro aveva parecchi generali) lo aveva invitato- in Africa- a una partita a tressette con Montgomery e Churchill. A lui era toccato come compagno Montgomery ma quando aveva bussato a spada il generale aveva risposto a bastoni; allora lui, il nostro paesano, si era alzato e con un braccio alzato e minaccioso gli aveva gridato: cretino fess! buttandogli le carte in faccia. Non bisognava ridere a questi racconti ai quali forse egli stesso credeva. Quando vado al cimitero, vedo il suo ritratto sulla lapide e gli mando un silenzioso saluto. No, i nostri vecchi raccontavano invece il vero della loro vita; le invenzioni le lasciavano ai reccunterell’. Chi era stato in America ne riferiva gli aspetti positivi – indugiandosi soprattutto a evidenziare la grandi proporzioni di tutto: le strade, le auto, i grattacieli – e quelli negativi soprattutto per un emigrato. Se però osava dire che il lavoro era tanto e si faceva una vita dura, erano poco creduti: chi tornava dall’ America ( i ‘mrcan’) erano privilegiati, avevano messo da parte i dollari e avevano potuto comprare un campo o magari vasti terreni e farsi una casa grande. L’ex emigrato usava alcune parole americane spesso aggiustate al nostro dialetto. Alcune finirono anche per entrare nel parlare comune ( a fenz’ per indicare la rete metallica; fare schecchènz per fare conoscenza; secne-enz per dire di seconda mano ma anche di scarso valore; facòf per mandarsi a quel paese; salmebéch per ingiuriarsi; ecc..) .
Ma ciò che affascinava noi ragazzi erano i cunt dei briganti o dei fantasmi che nelle sere d’inverno venivano raccontati intorno al focolare.
I briganti diventavano eroi romantici; Salvatore Giuliano era trasformato in una sorta di Robin Hood che rubava ai ricchi e dava ai poveri anziché uno che aveva sparato ai contadini a Portella della Ginestra. Si raccontava anche di briganti locali che venivano descritti con simpatia come giustizieri, anzi con orgoglio si faceva risalire Bonefro ad antichi briganti dei quali rimaneva qualche lontana traccia in alcuni soprannomi. Una mia discendenza era dei “Mussnir”: si raccontava che un brigante era stato sorpreso dai carabinieri. Protetto da un masso, per sparare più velocemente tirava fuori le cartucce con la bocca. Quando tornò al covo, gli amici notarono il muso nero di polvere da sparo e da allora fu “Mussnir”. I briganti (poche volte si pronunciava il nome “bandito”) erano ribelli ai soprusi dei ricchi, decisi a farsi giustizia da soli o in gruppi.
Da fantasmi e “paure” noi ragazzi eravamo attratti e spaventati. Non c’era carrettiere che non andasse in giro a raccontare di aver visto qualche fantasma o che passando davanti al cimitero non avesse a stento tenuto il cavallo che si fermava e si impennava nitrendo spaventato per un’ombra che si muoveva. Poco oltre il nostro cimitero c’era sino a non molti anni fa una piccola masseria abbandonata chiamata a masseri’e da peur’ per i fantasmi che ospitava e che mettevano a dura prova uomini e animali. Le streghe, si diceva ai più piccoli, erano pericolose ma era facile neutralizzarle: poiché esse il sabato sera non andavano in giro, per essere al sicuro bastava recitare la frase: messer è sab’t ‘na case mi. Mai le streghe avrebbero osato entrare in quella casa dal calendario particolare. Questi racconti rientravano nella tendenza al fantasticare che portava a molte credenze. Ad esempio, si diceva ai bambini che il 2 novembre a mezzanotte non bisognava affacciarsi perché c’erano i morti in processione. Così ascoltavamo con serietà e fede altre credenze. Chi nasceva a mezzanotte di Natale era lupo mannaro e chi nasceva maschio dopo 6 maschi (il settimo fratello) era ceraul’ e poteva prendere con le mani tutti i serpenti senza danno.
Ancora più strano è che persone incapaci di dire bugie raccontavano di case dove vivevano “paure”, fantasmi che si impadronivano della casa quando non c’era nessuno facendo grandi rumori che si udivano anche fuori e spostando mobili e sedie.
Noi piccoli eravamo molto colpiti da questi racconti che spesso erano detti in una scenografia che sembrava creata per sottolineare il mistero e il timore. Immaginate una serata d’inverno. Fuori nevica e tira vento ( a f-lippin’) che non solo agita i lampioni appesi suscitandone lamenti metallici ma penetrando tra le case nei vicoli sparge nell’aria sibili e fischi minacciosi e infilandosi nei camini ributta dentro il fumo con brontolio cavernoso e prolungato. Qualche bambino sta vicino al fuoco nella stanza senza luce. Ogni tanto la fiamma si ravviva e proietta contro i muri le ombre che ondeggiano lunghe e spaventose. Un anziano o un ragazzo grande racconta, lentamente, seriamente di briganti, di streghe, di fantasmi. Non hai nemmeno il coraggio di guardarti dietro anche se lo desideri tanto per essere sicuro che una di quelle “paure” non stia per prenderti alle spalle. Per te diventava un problema se ti si ordinava di andare a prendere un oggetto in un’altra stanza. A meno che non avessi un protettore che ti rassicurasse. Nella casa del mio amico d’infanzia, c’era Tat F’rcucc’, un fantasma nemmeno tanto cattivo. Era nascosto nella grande tinella per la vendemmia che era nella stalla, uno stanzone comunicante con una porta con la cucina. Andare a prendere la legna nella stalla significava passare vicino la tinella ma la paura era attenuata da Ciurcìll che non era lo statista inglese ma semplicemente il grande asino sul quale montavamo quando il padre del mio amico tornava dal campo. Bastava che Ciurcìll si girasse verso di noi per rassicurarci.
Quando le strade e la case furono invase dalla luce, quando i carretti che circolavano anche di notte furono sostituiti dalle auto, scomparvero fantasmi e paure. Venne meno la fantasia. Vennero meno il racconto dialettale, la possibilità di fare domande e avere risposte, di fare commenti. In realtà quei fantasmi e paure sono stati sostituiti da altri fantasmi e paure. Più in carne, più pericolosi. E quel raccontare e chiedere e fare commenti è stato sostituito dal freddo elettrodomestico che incatena molti con le sue immagini e voci elettroniche lontane da noi al quale non puoi porre domande. Il buio s’è portato via stelle paure e fantasia. La luce che lo ha sostituito ha dilatato la realtà, prolungato il giorno, riempito le case di suoni e visioni provenienti da molto lontano. Da un altro mondo.
Nicola Picchione |
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