a cura di Nicola Picchione  
     

MARIA DELLA NEVE

 

         
            La vigilia di Natale del 49, i genitori di Maria si preparavano ad andare al paese vicino dove era sposata la sorella della madre di Maria. Povera ma molto bella, Giulia aveva sposato un benestante che agli occhi dei genitori di Maria appariva ricco. La sua casa al centro del paese, alcuni ettari di  terra, un mulo, galline, una decina di pecore ed un maiale che ogni anno riforniva la casa di ben di dio era considerata da loro una grande ricchezza. A Natale e a Pasqua i genitori di Maria portavano gli auguri ai loro parenti benestanti e tornavano a casa con un gradito carico di alimenti. Uova, formaggio, salsiccia, farina di grano e di granturco, una bottiglia d’olio. La bisaccia era piena poiché il cognato era generoso e non impediva alla moglie di aiutare la famiglia della sorella. In cambio, li aiutavano nei campi, quando si raccoglieva l’oliva o si vendemmiava.
            Quella mattina Maria era stata svegliata presto dalla madre. Era ancora buio ma il fuoco era già acceso e la nonna aveva già messo la pignatta con i fagioli accanto ai tizzoni già rossi.
            “ Prepariamo tutto, prima di partire – aveva detto la madre – perché al ritorno saremo stanche “. Maria aveva ormai il compito della maggior parte delle faccende di casa. Preparava anche il pane ogni dieci giorni, con la madre. Setacciava la farina il giorno prima e si procurava il lievito naturale dai vicini (tutti se lo scambiavano tra loro, preparandolo  con la pasta del pane) ; la sera mentre la nonna faceva bollire le patate e poi le sbucciava per essere impastate con la farina, lei preparava la pasta col lievito e la riponeva in una grossa zuppiera che avvolgeva in una vecchia coperta, al caldo per favorire la lievitazione. Concordava con la fornaia l’ora dell’infornata – compito che si era riservato per evitare la prima infornata che la costringeva ad alzarsi alle tre- ed impastava nella madia. La madre alla fine preparava le forme di pane che Maria portava al forno. Andava molto volentieri al forno, specie d’inverno: il freddo del percorso era compensato dal tepore del forno dove rimaneva a lungo, in attesa, parlando con le amiche. Il forno era una fonte di notizie. Si parlava di chi era fidanzata, chi doveva sposarsi, chi aveva litigato e con chi. Le amiche migliori si facevano comari stringendo un patto di alleanza; si sarebbero chiamate per sempre comare a ricordo di quel patto. Maria era ancora piccola per poter diventare comare di qualcuna.
            Prepararono i maccheroni per il giorno dopo, Natale. Maria impastò la farina sul tavoliere posato sulla madia; la madre tese la sfoglia. Maria volle tagliare da sé la pasta anche se non era veloce come la madre. La distese e la coprì con un tovagliolo.
            Certamente, pensava, la zia ci regalerà un po’ di carne di maiale e domani mangeremo pasta e carne. Sono poche le feste, dovrebbero venire più spesso per poter mangiare pasta e carne. Forse ci regalerà anche  un’ anguilla o un capitone e anche stasera mangeremo bene. Poi la mamma ha promesso che friggeremo anche noi la pasta.  Era contenta di andare dalla zia Giulia. Le voleva bene non solo per quello che regalava ma perché era allegra ed aveva sempre tante cose da riferire e le piaceva sentirsi raccontare i fatti del suo paese di origine. Le dicevano che rassomigliava molto alla zia e questo le faceva molto piacere. Anche lo zio era allegro e generoso. Maria adorava la piccola Annetta di tre anni che adorava lei. Appena arrivata le correva incontro urlando “ìììa, ìììa” e lei fingeva di essere arrabbiata e le diceva: “Guarda che mi chiamo Maria e tu devi chiamarmi per bene”. Annetta che ancora non riusciva a pronunciare bene alcune parole stava al gioco, fingeva di farle il broncio e poi le correva incontro con le braccine aperte. Maria le portava come regalo di Natale una piccola bambola. Aveva impiegato molto tempo a prepararla con la creta, rivestendola con stracci coperti da  una gonnellina rossa e una camicetta bianca. Le aveva anche messo in testa un piccolo fazzoletto blu, alla moda delle donne antiche, ed aveva dipinto di rosa il viso.
            Il padre aveva già portato da mangiare alle galline ed al maiale, nel casottino affianco alla casa.
            “Quest’anno avremo un bel maiale grasso che ci darà un buon lardo” aveva detto. Maria sapeva che solo una piccola parte di quel maiale sarebbe stato mangiato da loro durante l’anno. La salsiccia era in gran parte per i mietitori, i due prosciutti sarebbero stati venduti. La sugna conservata nella vescica doveva bastare tutto l’anno. L’olio serviva solo per condire, con poche gocce, l’insalata d’estate. A casa loro non c’era l’abbondanza di olio come da zia Giulia.
            “Subito dopo Natale ammazzeremo il maiale se continuerà a fare freddo” aveva aggiunto il padre. A Maria piaceva quella sorta di cerimonia, anche se rientrava in casa quando il padre e i suoi amici acchiappavano il maiale che sembrava accorgersi della sua condanna e resisteva ad uscire dal piccolo porcile. Bisognava prenderlo alla gola col cappio di ferro. Maria si turava le orecchie alle grida del maiale ma poi usciva a vederlo steso sulla tinozza capovolta e portava l’acqua bollente per radere le sue setole. All’inizio aveva un po’ di paura ricordando che una volta- così le avevano raccontato- un maiale che sembrava già morto si alzò mentre gli toglievano le setole e fuggì.  Aspettava che lo sollevassero appendendolo al grosso gancio della cucina con i tendini delle zampe posteriori infilati nel robusto arco  di legno. Un amico del padre, esperto, iniziava a sezionarlo. Maria aveva imparato a bollire il sangue e poi passarlo in padella e condirlo col peperoncino. La nonna metteva parte del cervello in un cartoccio a cuocere sotto la brace. Poi avrebbero fatto una piccola festa con gli amici che avevano aiutato il padre. Ma soprattutto a Maria piaceva preparare la salsiccia, dopo alcuni giorni che il maiale era rimasto appeso. Il padre tagliava la carne separandola dalle ossa; lei, la madre e la nonna la spezzettavano con i coltelli sulla grossa tavola. Il padre aggiungeva sale e semi di finocchio nella giusta misura . Bisognava cuocerne un po’ nella padella ed assaggiarla per verificare la giusta salatura e questo era un momento molto atteso da Maria e dai ragazzi. Poi con piccoli imbuti la insaccavano con le mani nelle budella del maiale che avevano lavato e raschiato e lei aiutava il padre ad appendere i capi di salsiccia alla pertica di canna infilata nei ganci del soffitto della cucina.
            “ Ti stai incantando – la madre interruppe le sue fantasticherie- hai dimenticato di andare a prendere l’acqua ?” Spesso la madre la rimproverava di avere la testa per aria. “E’ come se la tenessi da un’altra parte. Vorrei proprio sapere a che cosa pensi. Ti rendi conto che ormai sei grande e devi pensare alle cose serie?”. Interveniva la nonna :
 “Alla sua età e anche da più grande tu eri proprio come lei. Anch’io ti rimproveravo ma sapevo che eri una brava ragazza . I giovani hanno la fantasia perché debbono immaginare il mondo meglio di come è”. Solo la nonna mi capisce, pensava Maria. Vuotò in un recipiente l’acqua rimasta nella conca di rame stagnato, prese anche una vecchia  brocca di ferro smaltato. 
“Vieni con me, Livia” disse alla sorella . Livia aveva sei anni ma già dava una mano. Aveva delle treccine esili e chiare non come quelle lunghe e massicce di Maria.  Scesero  per il vicolo ripido e pietroso che era di fronte alla loro casa e si diressero alla fontana. A quell’ora c’erano solo poche persone a prendere l’acqua e l’attesa non fu lunga. Risalire con la conca di rame in testa e una brocca in mano non era difficile per Maria. Era diventata ormai abile nel tenere la conca in testa sopra il cercine di straccio e risalire il vicolo poggiando con sicurezza i piedi sulle pietre sconnesse che conosceva una ad una.
            Quella mattina il tempo non prometteva bene. Il cielo si era incupito: nuvole scure erano arrivate dall’est, portatrici di neve. I passeri becchettavano per terra ogni più piccolo pezzetto di cibo.
            “La gatta si lava anche le orecchie, vedrai che nevicherà” disse la nonna che da come la gatta passava la zampa sul viso deduceva le previsioni del tempo.
            “Dobbiamo affrettarci- rispose la madre- mangeremo in anticipo e a mezzogiorno ci avvieremo”.
            Mangiarono la focaccia di granturco  impastata con la verdura e si avviarono, raccomandando alla nonna e a Tonino, il maggiore degli altri tre figli, di badare ai fratelli e tenere acceso il fuoco, col grande ciocco di Natale.  Tonino aveva nove anni ma aveva dovuto imparare a comportarsi da grande. Spesso i genitori e la sorella erano nei campi. Maria aveva 15 anni, da tempo aveva smesso di andare a scuola. Aveva frequentato la terza elementare, era stata bocciata . Già alta e robusta malgrado lo scarso cibo, era di grande aiuto per i genitori. Andava anche al ruscello con la madre a lavare la biancheria. Si era fatta bella, come doveva essere stata la madre da giovane. Il seno era già molto sviluppato, la vita sottile i fianchi rotondi.
            “Stasera  faremo una bella cena di vigilia” promise la madre ai figli “ torneremo con tante buone cose. Vi preparerò anche la pasta fritta. Forse lo zio ci darà un po’ di capitone come l’anno scorso”.
            Erano ancora nel vicolo quando Maria si sentì tirare la gonna. L’aveva raggiunta la piccola Livia che le fece segno di chinarsi. Le disse all’orecchio: “ Zia Giulia mi aveva promesso una piccola bambola con le treccine. L’aveva già comprata alla fiera ma poi aveva dimenticato di portarmela. Ti prego, fattela dare”. Maria promise e raggiunse i genitori.
            Uscirono dal paese, attraversarono il vecchio ponte in pietra e iniziarono a salire per un violottolo  che si inerpicava sulla collina attraverso il bosco. Era un’ accorciatoia, la strada principale aggirava tutta la collina.  Maria non riusciva ad andare piano. Si allontanava per un po’ poi aspettava i genitori. Guardava lungo i bordi del viottolo, la terra umida e coperta di foglie secche e sterpaglia. Sapeva di non trovare nulla di particolare ma ricordava di essere venuta più volte da quelle parti col fratello a cercare asparagi. Lei saltava avanti al fratello ma lui trovava asparagi dove lei era già passata senza vederli. La prendeva in giro, lei si difendeva: “Per forza, tu sei basso e li vedi meglio”. Qualche volta era venuta con le amiche a primavera per viole e primule. Le primule erano buone anche da mangiare, dolciastre. Ma ora il bosco non aveva nulla da offrire. Qualche amica veniva a prendere il muschio per il presepe ma lei non aveva un presepe. Però aiutava Assuntina a prepararlo.
Quando giunsero in cima alla collina, si fermarono a riposare.
            “Verso il mare è molto scuro- disse il padre- e le nuvole nere stanno camminando verso di noi. La bora le trasporta velocemente”. Maria guardò in direzione del mare ma l’orizzonte era chiuso, grigio. Le nuvole sembravano fondersi con le colline più lontane. Ricordò che da quel punto alto quando il cielo era limpido  si vedeva in fondo alla valle che interrompeva il verde delle colline la lunga linea blu del mare che le sembrava tanto vicino. Un giorno andrò a vederlo e farò anche il bagno, pensò.
La strada aveva abbandonato il bosco. Maria guardò il panorama del paese. Si vedevano la piazza, la chiesa, il campanile con la punta aguzza e col grande orologio scuro e in cima, sulla punta, le campanelle che battevano le ore. Provò a  individuare la loro casa, come faceva ogni volta, anche se sapeva che non era possibile. Altre case coprivano il loro stretto vico del quale si vedeva solo lo sbocco verso la strada sterrata in basso che portava ai campi. Il suo vico non le piaceva. Era chiuso fra case basse e vecchie in pietra con poche scale esterne  che terminavano in un ballatoio protetto da una balaustra  di ferro. Lei preferiva le case più alte , intonacate e colorate del centro del paese.  Solo per poche ore entravano i raggi del sole. D’estate i vecchi sedevano sul pianerottolo e la sera qualche contadino si metteva davanti casa a fumare dopo aver rigovernato le bestie. Il più simpatico di tutti era per Maria zì Michele, un vecchietto grassoccio con un alto cappello nero e sporco e un panciotto di velluto giallo coperto di macchie che gli stava stretto. Aveva una specie di buco nero su una guancia sul quale passava spesso un gran fazzoletto che non gli serviva molto perché si liberava il naso del catarro soffiando fortemente e chiudendo una narice con le dita con grande disgusto di Maria.  Fumava la pipa di creta che emanava un puzzo sgradito. Chiamava Maria e le chiedeva di andargli a prendere l’acqua fresca alla fontana con la brocca di creta  o a comprargli il tabacco.
“Non ti sbagliare – le gridava dietro ogni volta come se fosse la prima- devi dire: trinciato forte” Le raccontava tante storie che forse non erano vere ma a lei piacevano.
Mi piacerebbe abitare vicino la piazza o nella parte alta, pensò guardando il paese, vicino alla strada e dove c’è tanta luce e passa molta gente, ci sono le botteghe, il tabaccaio e il bar.
            “Sì, vorrei proprio una casa bella. Non grande come quella di donna Rosaria. Quella è solo per le persone ricche, i signori” . Maria aveva riportato proprio quella mattina la biancheria lavata e stirata alla signora De Campi, la moglie dell’avvocato. La biancheria era pronta da due giorni ma la madre le aveva detto: “Aspetta la vigilia. Forse donna Rosaria ti farà un regalo  per Natale”. Ma la signora non era mai stata generosa. Raramente aveva dato loro qualche vecchio abito del marito o un suo vestito ormai logoro. I  soldi che dava loro quando le andavano a lavare la biancheria e preparavano la liscivia o l’aiutavano d’estate a preparare la salsa di pomodoro erano pochi ma essi ormai consideravano quelle piccole somme una risorsa preziosa.
             No – continuò a fantasticare- mi basterebbe una casa piccola. Però, con un grande focolare per scaldarci tutti senza litigare, con tanta legna. Anche una madia piena di pane e farina. Magari vorrei che fosse vicina a una fontana per non fare ogni giorno molta strada con la conca in testa. Mi piacerebbe sposare un falegname o un sarto che non mi portasse a lavorare nei campi come fa la mamma. Certo, un carabiniere sarebbe meglio. Io sarei la carabiniera e tutti mi guarderebbero con rispetto. Magari dovrebbe essere bello come Mario ma mi accontenterei anche se fosse un po’ brutto”. Mario era il fidanzato della cugina. Maria passò la mano sui capelli ricci, poi sul seno.
            L’orologio del campanile batté due colpi sordi e uno più debole e più acuto.
 “Sono passate le due” disse il padre “dobbiamo affrettarci”.
La strada umida ma non fangosa, coperta in gran parte dall’erba percorreva il crinale della collina tra i campi arati, era  in discesa e spingeva Maria a correre. Si fermava in attesa dei genitori. La madre si era nuovamente coperta con lo scialle scuro e logoro “E’ un ricordo di mia madre” aveva detto un giorno. Maria indossava due maglie sulla gonna di panno grosso. Le calze di lana, fatte dalla nonna, erano pesanti e lunghe fermate da un elastico ricavato da una vecchia camera d’aria di autocarro; a lei non piacevano ma la madre aveva insistito perché le mettesse. Portava sul braccio lo scialle che la madre aveva voluto a tutti i costi darle ma che lei si vergognava di usare.
              La strada in discesa era più lunga di quella percorsa in salita,  essendo il paese dove si recavano posto più in basso del loro. Maria lo vedeva tra gli alberi, grazioso, adagiato su un piccolo poggio, quasi un ripensamento del degradare della grande collina che divideva i due paesi, prima di finire nella vallata lontana coperta da ulivi  ed ora appena visibile. Il paese dove erano diretti era più piccolo del loro ma più ricco di terre, con clima più mite, con vigne e uliveti. A volte il padre e lo zio si mettevano a discutere dei rispettivi paesi. Noi siamo grandi lavoratori, diceva il padre. E’ vero, rispondeva lo zio, ma siete tirchi e scontrosi. Anche molto testardi.  Noi siamo più poveri, ripeteva il padre, non possediamo le vostre terre e i vostri uliveti e non possiamo usare l’olio come voi che vi ci lavereste anche il viso.
            Maria fece una piccola corsa trotterellando. Era allegra pensando a domani. Le venne voglia di canticchiare una nenia di Natale. Le piaceva pensare alla festa di Natale non solo perché si mangiavano tante cose buone al posto della solita focaccia di granturco (le vennero in mente la pasta fritta, i piccoli dolci col miele, la carne, i mandarini) ma per l’aria di festa che si respirava nelle vie. Lei era ormai grande ma i fratelli sarebbero andati a casa degli amici e dei parenti per augurare il buon Natale. Avrebbero ricevuto qualche piccolo dono, mandarini, fichi secchi, noci e forse qualche lira. La piazza si sarebbe riempita di gente che si scambiava gli auguri. Lei sarebbe andata in chiesa, alla messa cantata. Madre Cherubina avrebbe intonato “Tu scendi dalle stelle” e poi tutti avrebbero cantato in coro. Non gli uomini, che rimanevano in piedi tutti da una parte. Degli uomini cantavano solo, oltre al prete, il sagrestano e Giovannino il calzolaio che accompagnava le funzioni importanti con l’organo e col suo canto nasale. A Maria piaceva andare in chiesa. Non capiva nulla della funzione religiosa e si limitava a imitare quello che facevano le altre donne: inginocchiarsi, sedersi, alzarsi, fare il segno della croce dopo che il prete aveva alzato l’ostia sacra e mormorato alcune incomprensibili parole. Maria si guardava intorno, vedeva come vestivano le due figlie dell’avvocato e la figlia del dottore. Gettava ogni tanto uno sguardo verso la zona degli uomini ma attenta a non mostrare di farlo. Sapeva che i giovanotti si mettevano in prima fila e guardavano verso la parte delle donne, alcuni con sfacciataggine. Uno in particolare le piaceva. Si chiamava Gino e aveva i capelli ricci e scuri. Abitava nella parte alta del paese. Lo aveva visto solo un paio di volte. Aveva avuto l’impressione che l’avesse guardata con insistenza e forse anche sorriso. Lei era diventata tutta rossa in viso,aveva chinato il capo e accelerato il passo. Il suo cuore aveva iniziato a battere forte. La sera, a letto, aveva pensato a lui. Poi lo aveva rivisto una sera tornare dal campo, seduto sulla sella di un mulo alto come una statua. Da allora,quando guardava verso la parte degli uomini, in chiesa, tentava di riconoscere  i capelli ricci e neri di Gino.
            Non riusciva a tenere il passo del padre e della madre che era per lei troppo lento. Zigzagava nel sentiero, raccoglieva una pietra e la lanciava lontano .Guardava verso l’orizzonte ma distrattamente, continuando le sue fantasticherie. Tornò dove le aveva interrotte, in chiesa. Le prediche di don Luigi a volte la commuovevano a volte la spaventavano quando parlava delle fiamme dell’inferno e dei peccati commessi anche solo con la fantasia. Le piaceva anche andare in processione e percorrere le vie principali del paese parlando con le amiche e guardando la gente affacciata ai balconi e le coperte colorate distese alle finestre in onore del santo. Ora nasce il Bambino, pensò, poi il Venerdì santo Gesù morirà a andremo in processione. Era la cerimonia che preferiva. La commuoveva ogni volta sino alle lacrime. Le donne seguivano la statua dell’ Addolorata, gli uomini per altre strade quella di Cristo morto. Lei cantava con le altre: siamo stati molto ingrati (questa frase la cantavano con voce alta e strascicata) Gesù mio perdòn pietà (qui il tono del canto si attenuava come lamentoso). Poi le due processioni si riunivano a metà strada. Il Figlio morto veniva deposto ai piedi della Madre col cuore trafitto da una spada e don Pasquale iniziava a parlare. Ricordava la cattiveria degli uomini che avevano ucciso Gesù e l’ infinito amore col quale Egli perdonava ognuno di noi peccatori. Parlava del dolore della Madonna. A Maria veniva da piangere. Si riprometteva di essere più buona e di pregare. Si sentiva in colpa per i suoi pensieri, per sognare un fidanzato e una casa grande.
            Si era allontanata dal padre e dalla madre che avanzavano con passo lento e si era seduta ad aspettarli.
“Non vedi che è bagnato e ti sporchi tutta la gonna” la rimproverò la madre “almeno cerca di arrivare pulita in paese. Non mi hai sentito quando ti chiamavo? Non allontanarti da noi”.
           Arrivarono alle tre croci. Anche il loro paese aveva le tre croci del Calvario ma queste erano più grandi, ognuna su un piedistallo di pietra, quella centrale (quella di Gesù, pensò Maria) più alta e su una base più grande. Si fermarono. Da qui il paese appariva di fronte: si intravvedeva la fila degli alberi ancora giovani lungo  i marciapiedi del piccolo corso e in fondo il campanile a base quadrata, di un bel colore rosa tenue e con il quadrante bianco dell’orologio.
      

 “Vi aspettavamo prima” li accolse la zia Giulia “avevamo preparato da mangiare anche per voi ma ho messo da parte affianco al fuoco la parte vostra”.
“ Mai-aaa” urlò Annetta e corse a braccia aperte verso Maria .
“Quando imparerai a parlare bene” le disse prendendola in braccio.
“ Lei è molto intelligente ma tarda a parlare bene” notò Giulia.
“Anche tu da piccola eri così. Solo a cinque anni riuscisti a parlare bene” disse la madre di Maria.
Mangiarono. I due uomini si misero a parlare del tempo, del lavoro, delle previsioni del raccolto. Poi di un cognato che era disperso in Russia: un vecchio contadino che prevedeva il futuro, intervenne Giulia,  aveva assicurato che era vivo e che nell’anno nuovo sarebbe tornato. Lo zio tirò fuori dalla tasca una scatolina colorata che a Maria piaceva molto nella quale teneva il tabacco e le cartine. Il padre, invece, faceva le sigarette con la carta di giornale e adoperava un tabacco che puzzava. I due uomini si misero a fumare e cominciarono a parlare della guerra passata e delle loro esperienze, di come entrambi erano fuggiti e tornati in paese dopo quello che chiamavano il parapiglia e che Maria non capiva che cosa fosse, degli americani che erano arrivati carichi di sigarette e biscotti. Maria ricordava bene gli avvenimenti della guerra che in realtà dalle loro parti non c’era stata. Ricordava i tedeschi col loro aspetto che incuteva paura- soprattutto l’elmetto che copriva gran parte del capo e della fronte dando ai volti un aspetto feroce -, gli americani sorridenti e anche gli indiani con il turbante e i capelli lunghi. Aveva sentito raccontare che si erano accampati in un grande garage del paese e un giorno avevano deposto le scarpe fuori per assistere alla loro messa scalzi secondo la loro usanza. Quando erano usciti dal garage, tutte le scarpe erano sparite.
            “Andiamo da s-i-a  Iv-via” disse la piccola Annetta a Maria, prendendole la mano e cercando di trascinarla verso la porta.. La zia Silvia aveva il bar in piazza. Uscirono. Annetta volle portare con sé la bambolina che Maria le aveva portato: “ Le vollo dale la coccolata”, le disse accostando la bambola al suo viso paffutello e colorito.
            La luce che filtrava dal cielo scuro era scarsa, la piazza quasi deserta. Silvia accolse con un abbraccio Maria:
 “ Come ti sei fatta alta e bella - le disse sorridendo - Quasi quasi bisogna pensare a farti un fidanzato” Maria arrossì. “ Un giorno te ne troverò uno che ti piacerà. Tu devi trovare un buon partito”.
La sala del bar era grande, poco illuminata. In un angolo intorno a un tavolino  quattro uomini giocavano a carte, circondati da altri che assistevano alla partita. Entrando, Maria aveva sentito un odore particolare, un misto di caffè vino birra fumo di tabacco. Silvia le volle preparare una tazza molto calda di caffellatte. Le mise in tasca una manciata di caramelle e cioccolatini.
 “ A lei coccolato” Annetta sollevò la sua bambolina.
 “ A lei due cioccolatini” rispose Silvia. Entrò un uomo anziano.
 “Comincia a nevicare” disse scuotendo il cappotto. Maria uscì a verificare. La luce del giorno era ormai svanita. Attraverso la luce giallastra del lampione appeso in mezzo alla strada i fiocchi di neve ondeggiavano grandi, lenti come incerti se cadere a terra e sciogliersi o rimanere sospesi a danzare.
 “Tra poco  inizierà a nevicare molto” udì dall’uomo. I giocatori e i loro spettatori avevano cominciato a discutere a voce alta. Maria e Annetta salutarono la zia Silvia e si avviarono verso a casa.
“E’ un guaio se comincia a nevicare molto” notò Maria parlando a se stessa. Teneva in braccio Annetta  che le agitò sul viso la manina con i due cioccolatini (con l’altra teneva la bambolina) e le disse molto seria:
“Ma non focchia il vento”
“Che cosa?”
“ Il vento- Annetta alzò la voce e cercò di sillabare le parole  del suo visetto rotondo-  non fo-cchia”
“ Vuoi dire che non soffia il vento? (Annetta annuì). Ci mancherebbe solo il vento”.
 Il padre e lo zio stavano ancora parlando di tedeschi e americani accanto al camino, col bicchiere di vino in mano.
            “Comincia a nevicare” li interruppe Maria. La madre si affacciò e rientrò immediatamente, allarmata.
            “Affrettiamoci a ripartire, disse al marito, altrimenti corriamo il rischio di rimanere bloccati”.
            Si prepararono ma ci volle un po’ di tempo perché Lucia finisse di sistemare ciò che aveva preparato. Si ricordò della bambolina che aveva promesso a Lucietta ( solo allora se ne ricordò anche Maria e fu grata alla zia). La mise nel cesto affianco agli alimenti che non la sporcavano.
            Quando uscirono, i fiocchi si erano infittiti e già in terra c’era un sottile strato di neve.
            “Rimanete qui da noi, disse Giulia , domani ripartirete”
            “E’ ancora presto, le rispose la sorella, anche se è buio. A casa ci aspettano e assolutamente non voglio passare la notte di Natale fuori casa. Mia madre e i ragazzi si preoccuperebbero. Stanotte nevicherà molto e rimarremmo bloccati. In un paio d’ore ad andare piano arriveremo”.
Si avviarono. Si camminava bene.
            “Dobbiamo cercare di arrivare il più presto possibile in cima alla collina prima che cada molta neve o che geli”, disse il padre. Andava avanti, con la bisaccia sulle spalle, un po’ curvo; i paraorecchi del berretto militare ballonzolavano segnando il suo passo. A Maria il padre sembrava molto magro e sempre stanco a vederlo camminare un po’ curvo e col busto oscillante come se non ne reggesse bene il peso. Ma cambiava opinione quando lo vedeva lavorare nel campo e zappare con energia senza fermarsi e ne osservava le mani grandi e robuste o quando egli riusciva a tenere fermo l’asino imbizzarrito coprendolo di calci urli e bestemmie sino a quando l’animale si calmava e tornava ad ubbidire agli ordini. Allora il padre gli sembrava forte, pieno di coraggio e capiva perché la nonna diceva che sono gli uomini a comandare. Maria e la madre camminavano affiancate. Maria portava il cesto col manico infilato nel braccio e la madre un fagotto. Erano stati generosi gli zii. Terminate le case, una folata di vento diede violenza ai fiocchi di neve che ora cadevano abbondanti. Il padre alzò il bavero del pastrano militare  calcò il berretto che chiamava bustina e ne abbottonò i paraorecchi sotto il mento.  La madre strinse lo scialle al viso lasciando scoperti solo gli occhi. Guardò Maria  che pure si era tutta coperta con lo scialle, ringraziando in cuor suo la madre che aveva insistito a farglielo portare. Cominciarono a salire. Nel paese le rare luci dei lampioni pendenti sulla strada, riflesse dalla neve, davano un giallo chiarore che presto scomparve appena si allontanarono. La salita diventava mano a mano più ripida. Da lontano, in alto, proveniva un sibilo che sembrava allontanarsi ed affievolirsi per poi tornare più acuto e violento.
            “ Qui siamo ancora in basso e al riparo dal vento- disse il padre- ma più saliremo più il vento sarà forte. Dovremmo arrivare sulla collina  prima che sia tardi e aumenti il freddo. Il Bambinello che nascerà questa notte ci aiuti”.
            Non era tardi, forse le sei. Maria ebbe voglia di camminare più in fretta ma la madre le disse di  stare uniti. Maria ripensò alla casa degli zii, così calda. Camminarono in silenzio, a lungo (così parve a lei). Cominciò a nevicare sempre più fitto. A Maria sembrò che più salivano più intensamente nevicasse. Ora la neve non scendeva pigramente ma sembrava che i fiocchi si rincorressero facendo a gara a cadere a terra e formare uno spesso manto. Non era come quando  si incantava a casa dietro i vetri della finestra a vedere  nevicare mentre dal camino si spandeva il calore. Dalla finestra della loro casa vedeva il muro di fronte e i ciottoli del vico che si coprivano di neve e dal vicolo che portava alla fontana pochi alberi che si caricavano di neve ma a casa di Assuntina, la sua amica più cara, c’era una veduta molto ampia. Si scorgevano il campanile con la  punta e le due campanelle dell’orologio, parte della chiesa, il quartiere basso e vecchio del paese degradante verso la campagna. Si mettevano entrambe alla finestra col naso schiacciato contro il vetro, rimanendo a lungo in silenzio a guardare i fiocchi che danzavano lenti e il fumo che saliva dai camini con un pennacchio denso biancastro  che presto si sfilacciava e si disperdeva. Il paese sembrava lontano e grigio, come sfumato dal filtro della neve che scendeva. Mettevano chicchi di granturco sul davanzale e qualche passero, reso ardito dalla fame, arrivava di corsa a rubarli fuggendo. E’ bello vedere la neve che scende, pensò Maria, ma solo quando sei al caldo e al sicuro. Ora siamo come quei passeri in cerca di riparo ma i nostri vestiti ci riparano meno delle loro penne.
            “Questo pagliaio non l’ho visto quando siamo venuti” la voce della madre interruppe le fantasticherie di Maria.
            “Dobbiamo andare sempre in su, salire sempre per non sbagliarci” le rispose il marito che era più avanti di qualche passo. La sua voce sembrava provenire da lontano, quasi tremolante e rubata dal vento. La neve adesso era più alta e i fiocchi, induriti, si attaccavano sulla fronte scoperta. Poco a poco il vento si rinforzò. Si vedeva il pallido riflesso della neve per qualche metro, poi tutto era buio. Mano a mano che il vento si rafforzava, la neve colpiva il viso a tradimento, pungendo come se i fiocchi avessero spine. Il padre si fermò e disse:
“ Ora non abbiamo più il colle di fianco a ripararci dalla bora. Stiamo  vicini tra noi, non separiamoci. Per non sbagliare strada, il vento deve soffiare sempre dalla nostra destra”. Maria non capiva da che parte soffiasse. Le sembrava che le girasse intorno con cattiveria per strapparle lo scialle e la gonna e trafiggerla con i fiocchi di neve che non erano quelli che ricordava scendere guardando dalla finestra. Lontano le raffiche di vento sibilavano con rabbia, ora con toni alti come se si dovessero infilare negli spazi più ristretti ora con mugolii minacciosi.
            I passi erano diventati pesanti per la stanchezza e per la neve che andava accumulandosi. No, non  era proprio la neve amica che rallegrava Maria dietro la finestra, dolcemente e pigramente danzante, bianca e leggera che ricamava i vetri. Questa era una neve nemica, violenta, alleata col vento per abbattersi su tutto, che tendeva tranelli mascherando fossi  e pietre. Maria ricordò che una volta, quando era ancora piccola, la mamma le aveva detto di non andare nel bosco da sola perché poteva incontrare il lupo. Si fermò , liberò le orecchie dallo scialle. Si mise in ascolto. Udì più intense le raffiche violente del vento che le frustava il viso con la neve, urlando lontano tra gli alberi quasi preso dalla rabbia di non riuscire ad abbatterli. Ebbe voglia di chiedere alla madre se ci fossero davvero i lupi nel bosco ma strinse lo scialle al viso e proseguì il cammino. Anche i lupi, pensò, avranno cercato un rifugio e si sentì più tranquilla. Il vento sollevava la neve dal suolo in nuvole vorticose, rimescolando quella caduta con quella che scendeva dal cielo. Il terreno a volte sembrava a Maria coperto di poca neve tanto da battere con i piedi contro le pietre in altri punti tanto alta da affondarci. Quando il vento taceva, sentiva i loro passi affondare nella neve che, cedendo, sembrava gemere. A volte dovevano tornare indietro, quando si trovavano di fronte a cumuli che non potevano superare. Questo non li aiutava ad orientarsi. Non c’erano punti di riferimento, non alberi conosciuti. Dopo il breve spazio che lasciava intravvedere il terreno coperto di neve tutto era inghiottito da un buio impenetrabile dentro il quale sembrava di dover precipitare nel procedere e nel quale il vento urlava ora con rabbia crescente ora sibilando e poi affievolendosi come se andasse lontano a portare la sua violenza. Dal buio arrivava la neve come generata dal nulla, seguendo la direzione del vento e rubandogli la forza trasformava i suoi soffici fiocchi in schegge pungenti. Da dove viene il vento? si chiese Maria. Ricordò che quando era piccola lo aveva chiesto alla nonna. Ci sono delle grotte dove è chiuso il vento - le aveva risposto- nelle quali nessuno può mai entrare e che nessuno conosce. I venti forti, quelli che portano le tempeste, sono nelle grotte più profonde, buie e umide le quali comunicano con voragini che bucano la terra non si sa fino a dove. Quelli leggeri che soffiano a primavera sono in piccole grotte; uscendo, passano su prati fioriti e così portano profumi. E dove vanno a finire? le aveva chiesto. Tornano in altre grotte simili a quelle da dove erano usciti e attraverso passaggi sotterranei tornano dove erano partiti. I venti forti portano tempeste e disgrazie e li comanda il diavolo (la nonna si era segnata) mentre quelli leggeri sono guidati dagli angeli. Ma Domineddio comanda tutti e senza il suo permesso nessun vento può uscire e rientrare. I venti- aveva aggiunto la nonna- sono come i cani dei pastori, guidano le nuvole e così riescono a comandare la pioggia. Ci sono venti molto cattivi come lupi affamati che sono capaci di sollevare i tetti delle case e mandare in aria i pagliai nei campi. Ad essi a volte è dato il permesso di uscire quando la cattiveria degli uomini fa arrabbiare il Signore. Invece i venti leggeri sono quasi sempre liberi di girare e aiutano il lavoro degli uomini e delle donne, facendo asciugare la biancheria lavata e separare il grano dalla pula sull’aia quando il contadino ha trebbiato con la pietra tirata dall’asino e deve ventilare. Ma sei sicura che è come dici tu? le aveva ancora chiesto Maria. Non lo so, aveva risposto la nonna, così mi ha raccontato mia nonna e così lo racconto a te. Io non sono andata a scuola e so quello che mi hanno raccontato. Noi poveri siamo ignoranti mentre i signori vanno a scuola. Tu prova a chiederlo a donna Rosaria quando vai da lei. Maria, però, non lo aveva chiesto a nessun altro e le stava bene quello che le aveva raccontato la nonna. Ora, udendo il vento, anche se quella storia le sembrava strana , pensò che il Signore fosse veramente arrabbiato e avesse mandato in giro il vento cattivo. Forse, pensò, è arrabbiato perché il Bambinello nasce in una grotta al freddo e al gelo come canta madre Cherubina. Una folata particolarmente violenta- quasi a confermare la sua idea- le sollevò lo scialle e interruppe le sue fantasie. Provò ancora a guardare lontano ma non poté vedere altro che buio. Non sapeva più da quanto tempo camminavano. Le sembrò che fossero passate molte ore. Si accostò alla madre.
            “Il Bambinello ci protegga” disse la madre. A Maria venne in mente il Bambinello sorridente, nudo, con le braccia aperte che quella notte avrebbero deposto nel presepe della chiesa. Madre Cherubina avrebbe intonato con la sua voce da bambina, alta e sonora come una campanella  “Tu scendi dalle stelle” e tutti si sarebbero associati al suo canto, questa volta anche alcuni uomini. Le voci alte delle donne e quelle gravi degli uomini avrebbero formato un coro strano ma armonioso. Maria si sentiva commossa a quella cerimonia ed al pensiero del Bambino nato nel freddo tra la neve. Ma la neve che immaginava per lui era soffice chiara accogliente, appena un po’ fresca non questa che si accaniva contro di loro. Perché Gesù ha scelto di nascere a Natale- le venne da chiedersi- non era meglio a primavera? Ma poi pensò che a primavera risorgeva e, dunque, doveva per forza nascere d’inverno. “Ora staranno friggendo la pasta” pensò. Le vennero in mente la nonna e i fratelli che li aspettavano a casa e le sue amiche che ora mangiavano o giocavano a tombola con i fagioli o forse erano già in chiesa o addirittura dormivano già al caldo del letto. Non aveva più la sensazione delle ore.  Ripensò alla brace nello scaldino che mettevano nel letto. Solo la nonna preferiva un mattone caldo dentro uno straccio di lana. Era bello infilarsi nel letto caldo e accucciarsi sotto le coperte.
            “ Che ore saranno?” chiese alla madre quasi urlando e avvicinando il viso coperto a quello di lei.
            “Non lo so. Quando saremo in cima alla collina forse il vento ci porterà le ore battute dal campanile. Quando sentiremo quel suono, sarà buon segno per noi. Poi in discesa si camminerà meglio e se riusciremo a vedere le luci del paese saremo sicuri di non sbagliare strada. Preghiamo Gesù e la Madonna”.
 Maria non ricordava di aver mai sentito parole di preghiera dalla madre che nel suo ricordo era sempre  lontana nei campi o affaccendata in casa a darle ordini. Si fermò a guardarla. Vide solo la sua ombra, un po’ curva, avvolta nello scialle sul quale si era attaccata la neve ghiacciata. Si ripromise di guardare spesso lontano nella speranza di scorgere le luci del loro paese. Le vedrò io per prima, pensò, e darò la buona notizia. Mai come allora desiderava vedere quelle fioche luci che illuminavano le strade del paese provenienti dai lampioni appesi ad un cavo teso tra casa e casa che a volte le facevano paura quando si agitavano al vento cigolanti e lamentose  animando le ombre delle case come mostri in assalto. 
            “Fermiamoci  un momento” disse la madre avvicinandosi al padre.
            “Non qui- rispose lui - dobbiamo trovare un fosso per ripararci dal vento”.
            “Torniamo verso il pagliaio e ripariamoci “ insistette la madre.
            “Ormai è lontano e rischiamo di sprecare le forze inutilmente perché è difficile ritrovarlo. Se torniamo indietro, perdiamo tempo e orientamento. Dobbiamo andare avanti”.
            “Ho paura che l’orientamento l’abbiamo già perso” rispose la madre.
            Andarono  avanti. Maria provava a camminare davanti a loro ed aspettarli  riparandosi dietro un albero. Ma gli alberi erano rari e giovani, il loro tronco esile non la riparavano dalla frustate del vento. Trovarono un piccolo avvallamento e si fermarono. Il vento passava sulle loro teste. Il padre scosse il bavero del pastrano. La madre abbassò lo scialle dal viso che sembrò a Maria scuro ma era buio e forse si sbagliava.
            “Proviamo a mangiare qualcosa per recuperare le forze” disse il padre. Tirò fuori dalla bisaccia il primo involucro che gli capitò tra le mani. Era difficile adoperare la mani indirizzite dal freddo. Era  pasta fritta. Riuscì a trovare anche una bottiglia di vino. Ne bevve un lungo sorso. Bevetene un po’ anche voi, serve a scaldarvi, disse. Maria non aveva mai bevuto il vino. Le sembrò aspro e sgradevole ma il pensiero che potesse darle calore le fece ingoiare un bel sorso.

            Il vento sembrò calmarsi. La neve cadeva ora non abbondante, con fiocchi piccoli e pesanti.
            “Dove saremo?” chiese la madre.
            “Credo a buon punto- rispose lui- tra non molto dovremmo essere in cima e si dovrebbero vedere di fronte a noi le luci del paese”.
            Maria si sentì rincuorata a queste parole. Aveva fiducia nel padre. I grandi, pensò, hanno esperienza sanno prevedere il tempo e riconoscono le strade che portano a casa. Quando saremo in cima sarà più facile scendere. Vedremo il paese e potremo scegliere la via più breve. Si diede coraggio e  respirò profondamente come sollevata.
            Si rimisero in cammino, salendo. Il vento cominciò di nuovo a soffiare forte, con rabbia. Alcune raffiche li avrebbero spinti a terra se non avessero camminato molto curvi. Di nuovo la neve colpiva con violenza la parte scoperta del loro viso.
            Non sembra la notte di Natale ma del diavolo, pensò Maria ma si pentì del pensiero e si segnò. Il padre, che andava davanti a loro due affiancate cadde e scivolò in basso per alcuni metri. Si rialzò a fatica bestemmiando e raccogliendo la bisaccia. Maria fece di nuovo il segno della croce. Il padre bestemmiava spesso e questo a Maria non piaceva. Andrà all’ inferno e soffrirà, pensava ogni volta che il padre bestemmiava.
Non avevano idea di dove fossero, nemmeno di quanta strada avessero percorso e quanta ne rimanesse. Siamo nelle mani di Gesù, pensò Maria. Si fermarono un momento per riprendere fiato, vicini tra loro. Approfittando di un attimo di tregua del vento, la madre disse:
” Andare sempre in salita non significa che andiamo bene. Possiamo deviare da una parte all’altra senza accorgercene. Nemmeno la direzione del vento ci aiuta. Non abbiamo ancora incontrato il bosco. Sono stanca e mi voglio fermare”. Parlava respirando con difficoltà ma la sua voce sembrava dura. A Maria venne un nodo alla gola. Guardò il padre, cercando di indovinarne l’espressione del volto che non poteva distinguere. Lui non rispose. Disse soltanto:
 “Andiamo avanti, sempre avanti. Non ci dobbiamo assolutamente fermare. Forse non saremmo più capaci di riprendere il cammino una volta fermi”. Camminare era diventata una enorme fatica. Ora inciampavano ora cadevano nella neve all’improvviso profonda. Maria riusciva ad alzarsi presto ma la madre era molto stanca e bisognava aiutarla. Cadde in ginocchio. Maria pensò che fosse inciampata. L’aiutarono a rialzarsi.
              “Non ce la faccio più – disse - mi voglio fermare. Se volete, andate voi avanti ed io verrò dopo che mi sarò riposata. Non ho più forze, ora. Non sento più i piedi e le gambe pesano come pietre”
              “ Ti prego- rispose il padre- fa uno sforzo. Anche noi siamo stremati ma cerchiamo di trovare almeno un fosso per proteggerci dal vento. Ti prometto che ci riposeremo. Mangeremo qualcosa e recupereremo le forze. Poi sarà più facile proseguire. Non mancherà molto alla cima. Se il vento cesserà, ci vorrà poco tempo ne sono sicuro. E’ il vento che incattivisce la neve e accentua il freddo”.
               La madre scosse la neve gelata dalla gonna e dallo scialle. Non rispose. Faticosamente si alzò e riprese a camminare. Zoppicava.
               Trovarono un fosso dove ripararsi dal vento, non tanto profondo da impedire alle raffiche più forti di infilarsi tra i loro abiti non adatti a quelle condizioni. Il vento, tuttavia, sembrava perdere di forza e le raffiche andavano diradandosi. Maria era tra il padre e la madre. Tutti e tre stretti fra loro, rannicchiati. Maria sentiva il loro respiro, quello della madre interrotto da sospiri e qualche lamento.
              “Ci riposeremo solo per  poco” aveva detto il padre. La madre non aveva risposto. Dopo un po’, quando il vento si calmò, disse:
              “ Te lo avevo detto di non partire. Il tempo era già brutto. Ma io non ho il diritto di parlare e se parlo tu fai il contrario di quello che dico perché devi comandare. Io servo soltanto a lavorare. Quante volte ho maledetto di essere nata. Era meglio nascere cane. A casa ci aspettano. E questa povera figlia dannata a patire con noi”. Il padre non rispose. Maria provò a guardare il viso della madre ma riusciva a vedere solo la sua sagoma scura. Sentì una pena profonda per lei, avrebbe voluto abbracciarla e prometterle che l’avrebbe aiutata di più , l’avrebbe fatta riposare e l’avrebbe difesa dai comandi e dalle bestemmie del padre.Gli uomini sono fatti per comandare, diceva la nonna, e le donne per ubbidire. Solo le donnacce si ribellano a questa regola. Diceva anche che la donna è più furba dell’uomo e a casa comanda lei ma non deve mai lasciarlo capire. Deve essere bello comandare, pensò Maria, ma bisogna essere ricchi come donna Rosaria.
              Maria non ricordava un silenzio così assoluto e così pauroso, quando il vento si acquietava del tutto. A volte in campagna  il silenzio era totale ma subito veniva interrotto dal canto di un uccello, dal frinire delle cicale o da un canto lontano. Qualche volta, quando d’estate portava a mezzogiorno la cesta col pasto per i mietitori, aveva provato paura a ritrovarsi tutta sola. Era più piccola e le venivano in mente i racconti di spiriti che all’improvviso uscivano da sotto la terra a mezzogiorno quando non c’era nessuno. Ma poi bastava il gracchiare di una cornacchia in cielo o il lontano abbaiare di un cane o il raglio di un asino per far svanire la paura. Adesso, al buio col freddo che penetrava sempre più nelle ossa, il vento e la neve che minacciavano e impedivano il loro cammino anche il silenzio diventava una paurosa minaccia ingigantendo il mistero del buio.
              I pensieri di Maria non seguivano un filo logico, si rincorrevano, si accavallavano, svanivano l’uno nell’altro. Più che pensieri, erano immagini che affioravano spontaneamente dalla sua memoria, come lontane, da un altro mondo, confuse, come se la sua mente ubriaca di freddo vagasse nel campo dei ricordi per non soffermarsi sul presente. Il suo paese non era più dietro quella insormontabile collina sferzata dalla tempesta di neve; le appariva lontano, animato da ombre che si muovevano nella sua immaginazione e parlavano senza che si riuscisse a udirne la voce.  Poco a poco non udì più il respiro del padre e della madre. Si addormentò. Passò nel mondo del sogno e tutto ciò che nel dormiveglia le era apparso lontano, sfumato e silenzioso ora si rianimava in immagini precise. Sognò di essere in chiesa e di cantare con le altre donne ma dalla loro bocca non usciva la voce ma solo un fiato che sembrava vapore nevoso e somigliava ai pennacchi chiari del fumo che vedeva uscire dai camini dalla casa di Assuntina quando nevicava. Sull’altare c’era un bambino nudo che piangeva e il prete gli ripeteva: sta zitto; un cane passava tra i banchi col pelo dritto e coperto di ghiaccio  emettendo ululati come fosse un lupo; il tetto  della chiesa  all’improvviso  sparì ed entrò un violento colpo di vento che fece precipitare una valanga di neve. Maria sollevò la mani sul capo per difendersi e si svegliò. Dall’alto del riparo le era caduta della neve sul capo e sulle spalle.
              Provò a guardare da un lato e dall’altro verso il padre e la madre. Vide solo le loro ombre immobili. Tutta rannicchiata con le ginocchia alzate e strette fra le mani, con lo scialle col quale tentava di coprirsi sino ai piedi  tirato sul viso, tentava di scaldarsi col fiato. Come il Bambinello col bue e l’asinello, pensò. La neve cadeva seguendo i capricci del vento, ora lenta ora colpendole lo scialle con forza.
              I pensieri continuarono a vagare confusamente nella sua mente. I ricordi, le fantasie, tutto si rincorreva e si accavallava come la neve caduta con quella che cadeva. Guardava la neve davanti a sé , appena riconoscibile dalla poca luce che il cielo nero lasciava filtrare. Lei non aveva mai pensato alla neve come causa di pericolo. Qualche volta aveva sentito di gente colta dalla bufera di neve e che era riuscita a salvarsi in un pagliaio. Sentiva compassione per i passerotti che saltellavano davanti casa sulla neve in cerca di cibo e a volte buttava  loro di nascosto una manciata di granturco. Ma la neve era stata sempre per lei un’occasione di festa. L’unico fastidio che provava ma che accettava volentieri in cambio di quella festa era non tanto il ghiaccio che rendeva pericolosa la strada sconnessa e ripida del suo vico ma quella poltiglia scura  che la neve formava col fango, sciogliendosi. Non era bello solo lo spettacolo della neve che cadeva sugli alberi e sui tetti e si posava sul davanzale della finestra; era bello anche poter rimanere in casa davanti al fuoco e vedere qualche amico del padre che veniva a casa loro. Entrava scotendo il pastrano e battendo i piedi per liberarsi della neve mentre ripeteva: “Sta nevicando come non faceva da anni”. Anche se gli anziani parlavano di faccende che a lei non interessavano, vedere la casa animata da loro mentre bevevano il vino e mangiavano ceci abbrustoliti la rendeva allegra. Le piaceva soprattutto la sera quando calava il buio e dalla finestra vedeva scendere la neve davanti al lume dalla luce giallastra appeso al cavo metallico sul vico. Ricordò quando era più piccola e si sedeva davanti alla fuoco su un vecchio sgabellino di legno vicino alla nonna che aveva messo a bollire il granturco in una pentola di coccio. Spesso rimanevano al buio, non solo quando andava via la corrente per un guasto alla rete elettrica- cosa frequente durante le nevicate- ma anche per risparmiare  benché avessero una lampadina talmente debole che a stento illuminava fiocamente la cucina. A luce spenta il fuoco dava un aspetto tetro ai loro visi e la fiamma muovendosi proiettava sulla parete le loro ombre danzanti. Lei aveva paura di essere presa alle spalle da un fantasma e si metteva con lo sgabellino sul focolare con la schiena contro il muro mentre la nonna le raccontava fatti lontani.
              Un colpo di vento la riportò alla realtà, sollevandole lo scialle e infilando aria fredda e neve sul collo. Vide la sagoma del padre e della madre, immobili. Ecco, ora la neve non era quella piacevole dei ricordi, era diventata nemica. Il pericolo, pensò, non sono più i fantasmi ma il freddo e forse i lupi. Lei  aveva  visto un lupo in un disegno su un libro e ne aveva sentito parlare spesso nei racconti. Una sua amica le aveva raccontato di aver visto al cinema  aperto da poco in paese un lupo che era amico di un ragazzo selvaggio e bello. Anche dei lupi mannari aveva sentito parlare: vanno in giro la notte di Natale, sono enormi, capaci di ingoiare con un solo boccone un bambino. Ora si sentiva stanca, aveva sonno e gli occhi le bruciavano. Non si spaventò più al pensiero del lupo mannaro e si addormentò.
              Sognò di salire su una immensa scalinata. Più saliva più la scalinata cresceva sino a farle mancare il respiro. Si metteva a sedere su un gradino e, ripreso fiato, riprendeva a salire. Alla fine giunse su una grande terrazza che le sembrò sospesa tra nuvole bianche. Al centro vide una enorme tavola imbandita con tante pietanze. In una grande zuppiera fumava il brodo, un’altra era piena di pasta al sugo. Piatti ricolmi di carne al ragù, altri con carne arrostita. Insalatiere ripiene di tanti tipi di verdura cotta e cruda, ceste di frutta con mele pere arance e mandarini fichi secchi noci e mandorle. Mai aveva visto tanto ben di dio. Lungo i bordi della terrazza vide numerose persone sedute, col viso indistinguibile, immobili. Riconobbe in un angolo il vecchio zì Michele col suo buco nero sulla guancia e in mano la pipa spenta. Lo chiamò, rincuorata di aver trovato una persona amica ma lui non rispose e non si mosse. Vide anche, dalla parte opposta, un giovane vestito da carabiniere, in piedi. Le sembrò alto come una casa. Le parve che avesse il volto di Gino e che da sotto il berretto sfuggissero i suoi capelli neri e ricci. Ma lui non è un carabiniere, pensò Maria. Seduta in un angolo riconobbe madre Cherubina. L’avranno chiamata per cantare Tu scendi dalle stelle, pensò. Una signora elegante le fece cenno di accostarsi alla tavola. Era donna Rosaria, la moglie dell’avvocato. Sembrava molto più giovane di quanto non fosse. Forse è stata lei a far preparare questo pranzo di Natale, pensò  Maria. Solo una come lei poteva preparare un pranzo così ricco. Però non lo ha mai fatto prima e non è tanto generosa. Forse è diventata più buona per Natale o forse ha fatto un voto. Mentre si avvicinava alla tavola udì la voce argentina di madre Cherubina che intonò Tu scendi dalle stelle. All’improvviso la tavola con tutte le pietanze si coprì di ghiaccio e la voce di madre Cherubina divenne tanto acuta da sembrare un sibilo. Maria sentì un brivido di freddo sulla schiena e fuggì lungo le scale che all’improvviso scomparvero. Si sentì precipitare e si svegliò. Le rimase solo una sensazione di freddo lungo la schiena e un palpitare veloce del cuore. Lo scialle le era scivolato e un po’ di neve le era caduta sul collo. Provò a scaldarsi col fiato ma le mani erano rigide e i piedi come morti. Ci vorrebbe un bel fuoco, pensò. Come quello che fanno la sera di S. Antonio vicino la fontana, con la gente seduta a cerchio intorno al fuoco a cantare in onore del santo. Un fuoco così grande con le fiamme alte scioglierebbe la neve qui intorno e ci darebbe il calore per resistere sino a quando farà giorno.
              Si riaddormentò per un tempo che le parve lungo. Quando si svegliò di nuovo il vento si era calmato. Il cielo era punteggiato di stelle quante Maria non aveva mai visto. Le più piccole, di una luce fioca, le sembrarono le scintille contro il fondo nero della fuliggine che salivano sul camino quando colpiva la brace con la paletta. Le più grandi brillavano tanto da sembrare vicine. Peccato che le stelle non scaldino, pensò. Chissà qual è la stella di Natale. Deve avere la coda . Lo chiederò alla nonna. Ricordò ad un tratto quello che le aveva detto la nonna: non contare mai le stelle segnandole col dito; se lo fai ti nascono le verruche sulle mani. Ma lei ora non avrebbe messo le mani fuori dallo scialle a nessun costo. Vide affianco a lei le ombre del padre e della madre; ne sentiva il peso dei corpi sui fianchi. Si riaddormentò. In realtà, non era proprio un dormire ma passare da una veglia molto vaga ad uno stato di incoscienza, un vagare della sua mente, senza più rendersi conto di dove fosse. Una sola volta si svegliò e guardò il cielo. Non era più nero ma blu; erano rimaste accese solo le stelle più grandi. Alla sua sinistra notò in basso una striscia di cielo più chiaro, interrotta dalla parete nevosa del fosso. Sentiva addosso molto vagamente un peso che le impediva di muoversi. Non aveva più voglia di muovere le braccia e le gambe. Non pensava più al Natale, alla casa, ai lupi. Tutto le sembrava appartenere ad un altro mondo, come i sogni che aveva fatto. L’unica realtà era quel sentirsi pesante, non avere più pensieri e desideri se non dormire, non voler muovere il proprio corpo, non guardare affianco a sé i genitori dei quali non sentiva il respiro o i movimenti. . Non sentiva rumori. Non riusciva ad aprire gli occhi che le bruciavano sempre più. Le sembrava faticoso respirare, il freddo non le parve più pungente ma pesante, sordo come se fosse anche lui diventato stanco e assonnato. Ebbe la sensazione di non avere più mani e piedi; era scomparsa la sensazione di freddo acuto che aveva avvertito sino ad allora alle estremità. Solo ogni tanto riacquistava per qualche attimo una lucidità parziale. Le sembrò, ad un tratto, di precipitare: si svegliò ma non del tutto mentre il suo busto stava piegandosi verso destra. Guardò la madre e il padre. Ne vide solo l’ombra indistinta.  Dormivano, immobili. Non ne sentì il respiro. Riprese con fatica la posizione di prima, tutta rannicchiata. Le sembrò che la neve fosse più chiara e si vedesse più lontano. Il vento non soffiava più. Ripiombò nel sonno senza più sogni e senza fantasticherie.

“Maria” le sembrò che qualcuno la chiamasse. Una voce che le parve venire da molto lontano. Di nuovo sentì la voce che la chiamava, poi si sentì scuotere. Sto sognando pensò. Fece uno sforzo per aprire gli occhi . Aveva voglia di strofinarli ma non riuscì a portare le mani al viso. Le sembrava di non avere più le braccia. Era come se fosse legata.  Rimase abbagliata da una luce intensa che la costrinse a richiudere gli occhi aperti con forza.  Il sole era sorto da tempo, il cielo era privo di nuvole di un azzurro intenso, la neve rimandava un bagliore accecante. Intravvide  sopra di sé l’ombra di un uomo.
   “Maria” si sentì chiamare di nuovo.
   I suoi ricordi non andavano oltre. Facevano un salto e passavano di colpo alla sua casa con lei a letto e con forti dolori alle gambe. Il seguito le fu raccontato ma non tutto di colpo. Le dissero che la madre e il padre erano stati portati lontani, all’ospedale.
   Era stato un Natale splendente di sole. La neve copriva tetti, strade ed alberi ma  non era abbondante. Il vento della notte, durante la bufera, l’aveva accumulata in alcuni punti. Vincenzo detto vardarotta era uscito col mulo per arrivare presto alla sua piccola masseria e far ritorno prima di mezzogiorno.  Come raccontò, non aveva un motivo particolare per recarvisi. Fu il Bambino Gesù a spingerlo, disse poi la moglie Rosa. Aveva seguìto la strada principale e appena scollinato aveva visto poco lontano una strana ombra scura che contrastava con la neve scintillante al sole. Si era avvicinato ed aveva riconosciuto quelle tre persone che sembravano dormire. Il sole, anche se non caldo, aveva sciolto lo strato di neve ghiacciata che si era depositata sui loro corpi. Maria era seduta in mezzo. Si lamentava. Affianco, il padre e la madre i cui busti erano appoggiati a Maria come e proteggerla. Maria delirava. Si lamentava e pronunciava  frasi che Vincenzo non riusciva a capire se non in parte. Era coperta di uno scialle vecchio, quello della madre, buttato sopra un altro scialle che la copriva tutta.
   Si erano allontanati dalla via che avevano percorso il giorno prima nell’andare, deviando. Avevano quasi raggiunto la cima della collina ma lontano rispetto al percorso del giorno prima, allontanandosi dal paese. Non avevano il loro paese di fronte ma spostato sulla sinistra. Si erano fermati quasi sotto il  ciglio della strada, dove esso sporgeva formando il debole riparo che avevano trovato. Se avessero camminato poco più a lungo, sarebbero arrivati in cima, avrebbero iniziato a scendere e forse sarebbero riusciti a vedere il loro paese o magari, poco distante,  la piccola masseria di Vincenzo.
   Fu molto difficile per Vincenzo mettere sul mulo Maria che non riusciva a muovere le gambe e a stento muoveva le braccia. Alla fine ci riuscì e la riportò in paese. Tornò poi con altri uomini e con i muli a riprendere i corpi congelati  del padre della madre di Maria.

 

Gennaio 2003
Nicola Picchione