A CURA DI NICOLA PICCHIONE
 
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 Bonefro.net - Nicola Lalli
PAN' E PIZZ

 

U pan' ....

            Se facevo cadere una pagnotta di pane, mia nonna me la faceva baciare dopo che l’ avevo raccolta. E’ il corpo di Gesù Cristo, mi diceva. E non dovevo appoggiarla capovolta perché andava rispettata. Quelle pagnotte ( i pénéll’ du pan’) grandi, rotonde, dalla scorza scura, che riempivano la casa di un  profumo inebriante quando venivano riportate ancora calde a casa dal forno, non erano solo cibo. Quel pane era simbolo della vita e il frutto di un grande e lungo lavoro. Quel rispetto che mia nonna- non la sola- esigeva per il pane era il riconoscimento di una sacralità più laica che religiosa; la vera sacralità religiosa era riservata ad altri pani: i pan- ttèll’ d’ sante N-col’ che erano benedette in chiesa il 6 dicembre e che bisognava mangiare senza companatico.  Il pane aveva soprattutto il rispetto dovuto alla fatica ed anche alla sicurezza che dava: T-né a meze  chien’ , era rassicurante.
             Dacci oggi il nostro pane, recita la preghiera. Pane e lavoro, reclamavano gli operai.
             Potevi anche mangiarlo senza companatico per quanto era buono. Pan’ e curtell’ ngrass’ u gudell’, recitava un detto.
            Chi nasce oggi non sa come si arriva al pane: sa solo che lo trova in negozio, che  deve essere fresco, che lo può scegliere in tante varianti. Se ne rimane, viene gettato. Se ne gettano tonnellate ogni giorno. Il bambino non lo vuole più, preferisce le merendine; se si riesce a dargli il latte la mattina, non vuole il pane ma fiocchi d’ orzo: roba da cavalli, una volta. Merendine e fiocchi contengono chissà che cosa per sedurre il gusto. Non importa se fa bene o male, conta solo attirare per vendere il più possibile.
              Le lotte operaie sono quasi un ricordo- almeno per ora- comunque nessun operaio oggi reclamerebbe pane e lavoro. Resta la preghiera, semplice bella e solenne rivolta a un Dio non più condottiero e giustiziere ma padre e dispensatore di benessere; essa, però, è divenuta una sorta di giaculatoria ripetuta senza cuore. Ci sembra quasi superfluo chiedere di darci ogni giorno il nostro pane. Oggi vogliamo ben altro.
             Le nostre certezze sono a volte illusioni.
 
                                                                            *****

            Lungo è il cammino per arrivare al pane. Vale la pena ricordarlo. A casa c’era il grano che si portava al mulino quanto bastava per alcuni giorni; si cerneva  la farina  il giorno prima della preparazione del pane ( la crusca-  a chenighie - serviva a preparare il pastone per il maiale o per i polli. Oggi la vendono in farmacia in pillole per gli intestini detti pigri). Il giorno prima si bollivano le patate che si aggiungevano per rallentare l’indurimento del pane che doveva durare 10-15 giorni. Alla fine diventava un pò duro: tanto meglio, se ne mangiava meno. Ti prenotavi al forno per il tuo turno. Alcune donne preferivano la prima infornata per avere poi a disposizione la giornata per altre faccende. Bisognava alzarsi alle 3-4 di mattina. Si preparava la pasta lievitata ( u l’vat’) calcolando bene i tempi di lievitazione in base alla temperatura. D’ inverno veniva messo in un recipiente di ferro smaltato largo ( na spas’) vicino al focolare sorvegliandone la crescita e la sofficità. Il lievito naturale veniva passato da casa a casa. Andarlo a cercare da qualche vicina era compito di noi ragazzi: è ditt’ mamm’: a tì a remmess? Se nella casa dove eri andato c’era un tuo compagno, inevitabilmente rispondeva per prenderti in giro: a pezz’ ncul’ chi tà mess ? Un piccolo scherzo ripetuto chissà quante volte. Ogni quartiere aveva il suo forno a paglia. Il forno diventava anche luogo di ritrovo delle donne che aspettavano la cottura del pane: ognuna metteva sul proprio un piccolo segno di riconoscimento, un pezzetto di pasta su ogni pagnotta. Si scambiavano chiacchiere, si faceva qualche pettegolezzo; si stringeva anche amicizia: alcune si facevano comari di forno in segno di amicizia particolare. A casa i ragazzi aspettavano che si riportasse il pane nei recipienti di legno( a m-sell’) che ancora si trovano nelle case bonefrane -ne conservo una anch’io- e servivano per molti usi: stendere i pomodori, essiccare i fichi ecc... Non si doveva tagliare il pane appena sfornato finché era caldo  ma c’era la morbida schiacciata (a schénat’) e la focaccina dalla crosta croccante ricavata dal residuo di pasta raschiata dalla vasca della madia ( a p-zzelll’ da radetur’ ).
            Mangiare il pane era un privilegio ma pochi lo mangiavano a volontà, nemmeno i figli dei benestanti: tutto doveva essere misurato. Un nostro vicino aveva molti figli; quando dava loro il pane li metteva in fila. Si accorse che mentre tagliava e distribuiva, il primo che aveva ricevuto la sua fetta la finiva e si rimetteva in fila. Imparò a tagliare prima tutte le fette e poi distribuirle in modo da non dare loro il tempo di finirla mentre tagliava. Il bis non era permesso.
            Nessuno avrebbe mai buttato un pezzo di pane. Se duro veniva usato per il pancotto o d’estate per l’ acquesale che in Toscana chiamano panzanella ma non ha la bontà del pane bonefrano perché con l’acqua perde di consistenza e si sbriciola troppo come  a mbenizz’ pi’ p-cin’. Acquesale è un lontano ricordo dell’ ottocento quando agli operai veniva data una scodella con acqua e sale per bagnarci il pane e dargli un po’ di sapore. Quel nostro pane quando induriva era ottimo anche da solo, bagnato con l’acqua.
            Il  companatico col pane non era frequente. I ragazzi spesso bagnavano il pane e vi cospargevano sopra un po’ di zucchero. Ricordo un ragazzo vicino casa mia- ora vive in Canada- che metteva sulla fetta di pane i taghierell’  freddi del giorno prima. Spesso i ragazzi col pane mangiavano frutta - uva, noci a seconda della stagione- o pomodori.
            Il pane di grano Cappelli aveva una sfumatura gialla e una consistenza particolare. Era un grano duro pregiato dalla lunga spiga ormai in disuso ( ma si trova ancora) perché di scarsa resa e poco adatto alle mietitrebbia. Se il grano non era ben ripulito da veccia e altri inquinanti vegetali, la farina era piuttosto scura.

 

2- A pizz’ … ed altro.
           
            La pasta era- come è ancora- l’altro diffuso prodotto del grano. La pasta era fatta in casa, solo nelle feste era comprata: non era confezionata come oggi ma venduta sfusa. La pasta  fatta in casa era di solito senza uova: le uova venivano vendute per ricavarne qualche lira. Ricordo un uomo, zoppo,  e una donna che giravano il paese col manico di una larga cesta di vimini infilato nel braccio. Urlavano la loro presenza: chi tè l ‘ov’ ! .
            La pasta fatta in casa  aveva varie forme, lunghe (  maccherun’, taglietèll’, laenèll’) o corte (taghierell’ , teccozz’, taccuzzell, ciuf-l’ , fusill’, r-chietell’). Il condimento era a base di pezzetti di lardo ( i c-culill’ ) soffritto con la cipolla e sugo di pomodoro. I più poveri adoperavano una farina meno nobile e poco purificata, più scura: il cruschello.  La pasta era più grezza:  i maccherun’ d’ ‘ntr-mmapp’.
            Il cibo base per la maggior parte dei contadini non era la pasta ma la pizza: non la napoletana ma di farina di granturco, cotta sul focolare, coperta dalla coppa sulla quale si spargeva la brace. Veniva spezzettata con le mani ancora molto calda, mescolata con verdure o fagioli e ripassata in padella ( pizz’ e foglie o pizz’ e fesciol’ ). La pizza era mangiata anche al posto del pane benché di sapore meno gradevole e di consistenza saponosa sotto la crosta molto dura. Ho già raccontato in un’altra nota del contadino che da anziano mi parlava di quando andava a lavorare nei campi portandosi un po’ di pizza e un pezzo di lardo fritto ( u cicul’ ) che però si limitava a strofinare sulla pizza per insaporirla e la sera lo riportava a casa per i figli. Quando la minestra di pizza era in eccesso veniva mangiata il giorno dopo, riscaldandola ( a pizz’ e r-cott’ ).
 

           Il cibo entrava nei desideri e nell’immaginario. Oggi appare difficile pensare che solo alcuni decenni fa mangiare fosse per molti un problema. Il problema. Non era, ovviamente, un problema solo di Bonefro: il benessere doveva ancora venire e solo pochi potevano permettersi una alimentazione completa. Le stesse famiglie benestanti bonefrane usavano il cibo con parsimonia. La carne era riservata ai giorni di festa anche per loro. Mi raccontava mio padre che qualche agricoltore benestante negli anni  30 riportava a casa la carne comprata in macelleria  infilzata  in una bacchetta che teneva appoggiata sulla spalla: una sorta di trofeo o l’ ostentazione del suo benessere anche se ostentare non era nel carattere dei bonefrani. Poca carne era comprata in macelleria, molti allevavano polli o  conigli. Il maiale forniva gran parte dell’ alimento di origine animale nelle sue varie forme.            
                Il mangiare occupava desideri, fantasia. Il grande mangiatore era considerato una sorte di superuomo e le sue gesta giravano di bocca in bocca, come le 19 colazioni in una mattinata di Mast’ Caitan’ ( non è la stessa persona cui accennavo nella nota sugli artigiani) . Si raccontava che una mattina partì in bicicletta per vendere le falci nelle masserie. Il contadino si meravigliava nel sentirsi rifiutare un bicchiere di vino- conoscendo la sua tendenza a bere- e quando si sentiva rispondere che era digiuno e non poteva bere, ordinava alla moglie di preparare la colazione al mastro, uova fritte o salsiccia. Ad ogni masseria il mastro rifiutava il vino dichiarando di essere digiuno ed ogni volta gli si preparava la colazione.
            Il cibo condizionava anche il gusto estetico: come in altri paesi poveri del mondo, le donne grasse erano ritenute le più belle ( è bell’ ciott’ e ciott’).

                                    La frutta non mancava ma era solo di stagione eccetto quella che era possibile conservare: mele, pere, uva che spesso i ragazzi rubavano quando il contadino la portava, già in parte schiacciata, per la vendemmia nei tinacci attaccati all’ asino. I grappoli migliori venivano conservati appesi a una pertica sino a Natale. Era frequente vedere lungo le strade pergolati              ( i pru-ulat’ ): la vite saliva accanto alla porta e si ramificava sotto la finestra. Non sempre il padrone riusciva a mangiare l’uva che attirava l’attenzione dei giovani. Da ragazzi, si andava anche nei campi a rubare frutta. Si prendeva di tutto, nei campi, spesso frutta ancora acerba per non farsela fregare dagli altri. Vicino casa mia c’era un orto (ora c’è una casa) con piante di carciofo: il padrone non riusciva mai a coglierne uno malgrado piantasse un grande cartello che ammoniva: campo avvelenato. Inutile come lo spaventapasseri per gli uccelli. Non esistevano insetticidi e mele e pere raramente erano prive del verme ma bastava eliminarlo. In cambio avevano un profumo e un sapore oggi dimenticati. Ho letto recentemente che una mamma a Termoli ha denunciato la mensa scolastica perché il figlio ha trovato un piccolo verme nella mela: non sa che è segno di prodotto non contaminato da antiparassitari, più biologico. Preferisce le mele grandi, quasi insapori, coperte di cera: ormai i cibi debbono soddisfare più la vista che il gusto.
            La carenza maggiore rimaneva la carne. Era il desiderio di tanti. Non a caso in molti racconti il lieto fine era quasi il medesimo: “.. e hann’ fatt’ na’ belle  fest’ e hann megnat’ tripp’ turc-nell’ e test” :  trippa, torcinelli e testa. Una festa non tanto apprezzable oggi.  Una filastrocca recitava: “ iamm’ ‘na casa don Cicc’ ‘ndò s’ magn’ pan’ ond’ e saucicc’ ’”: casa fortunata, da favola.  Fare “scécquitt’ era una festicciola tra pochi amici: si parlava ma soprattutto si mangiava e si beveva. Alcuni amici si riunivano in un ‘v-ttar’ portando ognuno qualche alimento. Bisognava non farsi fregare. Mi è stato raccontato (da Corrado I.) che una volta si riunirono 4-5 amici tra i quali Giuseppucc’ u ferrar’ (poi emigrato) e il baffuto Aquilino. Nel locale  non c’era luce elettrica, la fiamma illuminava debolmente l’ambiente. Giuseppucc’ si mise al fuoco a cuocere la salsiccia in padella mentre gli altri parlavano  bevendo qualche bicchiere di vino. Aquilino ebbe un dubbio. Guardò meglio e fu certezza: Giuseppucc’ ogni tanto mangiava di nascosto un “cannello” di salsiccia e lo sostituiva con nu’ capucciam’ (il torso del granturco) col quale si alimentava il fuoco. Si avvicinò al camino e con grande serietà disse a Giuseppuccio: “ Non è giusto che noi siamo a parlare e bere e tu lavori. Vai tu con gli amici, ci penso io a finire di cuocere la salsiccia”. Giuseppuccio tentò inutilmente di rimanere al “lavoro”. Aquilino proseguì col metodo di Giuseppuccio. Alla fine gli altri dovettero constatare che alcuni cannelli di salsiccia erano stati troppo abbrustoliti e si erano… induriti tanto da non poter essere mangiati.
            Un amico che ancora vive a Bonefro mi ha raccontato che da ragazzo, nel dopoguerra, a un vicino era morto l’asino: lo pregò con altri ragazzi di fargli prendere qualche fetta di carne ma l’uomo rispose che nessuno avrebbe toccato il suo asino morto. La sera andò a seppellirlo. I ragazzi spiarono da lontano, di notte disseppellirono l’asino e fecero una memorabile manciata di carne.
            Il cibo come pensiero centrale iniziava sin da ragazzi. Si racconta (lo sanno tutti i bonefrani) che poco prima di Natale un maestro cercò di spiegarne il significato parlando della nascita di Gesù. Poi chiese a un ragazzo: “Che cosa è per te Natale?” e il bambino: “Zéppole, signor maestro”. Mangiare pasta fritta era un’occasione da non dimenticare così come mangiare la pigna a Pasqua. Anche una caramella era solo per i giorni di festa. Ricordo i confetti che ci litigavamo quando passava qualche corteo di sposi, anche se c’era fango: ci buttavamo a terra, li pulivamo sui pantaloni e li mangiavamo. Ho un particolare ricordo di un confetto. Nel dopoguerra feci la prima comunione con altri ragazzi. Non esisteva festa per la prima comunione. Qualche lezione di catechismo tenuta dall’arciprete don Domenico e poi si prendeva in gruppo la comunione. Bisognava essere digiuni dalla mezzanotte, non si poteva nemmeno bere. Mia nonna mi diede un confetto e mi ingiunse di non mangiarlo prima della comunione, nemmeno di leccarlo. Mi disse anche di non masticare l’ostia ma farla sciogliere lentamente. Solo dopo che l’ostia si fosse del tutto sciolta in bocca avrei potuto mangiare il confetto. Durante tutta la messa non feci che tastare il confetto che avevo in tasca sperando che arrivasse presto la Comunione.
            C’era una sola occasione per mangiare poco o nulla: quando ci si ammalava. La Medicina di allora imponeva la “dieta”: digiuno. Mi raccontava mio padre che una volta da ragazzo ebbe una polmonite. Il medico ordinò il digiuno. Dopo qualche giorno aveva molta fame. Vide che la madre si era scaldata la pizza di granturco con i fagioli. La pregò di dargliene un po’ ma lei rimaneva fedele alla prescrizione del medico. Allora lui la pregò di fargliene sentire almeno il profumo. Lei si accostò al letto col piatto e lui fu rapido a prenderne con le mani quanto potette, nascondersi sotto le coperte e mangiarla. Oggi la Medicina dice l’ opposto: nessuna meraviglia, le cose umane vanno così anche quando vengono gabbate per scienza. Mia madre, invece, ebbe più fortuna perché non fu chiamato il medico. Da piccola ebbe una febbre e la madre le preparò il brodo di piccione. Sperò tanto, dopo, di avere un’altra febbre per avere di nuovo il brodo di piccione.

                                                                        *****

 

            Poi venne l’abbondanza col frigo pieno, con le merendine pronte, con le patatine tanto invitanti: cibi che una volta sarebbero stati definiti  buttmacc’. Mangiare non fu più un problema. La carne divenne cibo quotidiano. Per molti è diventato un problema mangiare troppo. Non sempre, anzi quasi mai, la quantità va d’accordo con la qualità. Oggi tornano di moda i “cibi genuini”: sarebbero quelli che una volta erano considerati normali. Così va il mondo. Cambiano anche i gusti: i giovani trovano duro il pollo di una volta e preferiscono quello di oggi prodotto in milioni di esemplari gonfiati con  ormoni e antibiotici in gabbie affollate, con carne molle e acquosa. Non bisogna meravigliarsene. Il cibo non è solo alimento, è parte della cultura umana.  Se è diffusa l’idea che “ come cucinava mamma non cucina nessuno” è solo per ciò che ci portiamo dentro. Mia madre non era una gran cuoca; credo che quasi nessuna donna di Bonefro lo fosse allora (avevano “altri pensieri per la testa”). Ma considero ancora oggi uno dei cibi migliori del mondo i suoi ciufoli e tann d’ rap cu’ ntrigh’ e una volta l’anno mi preparava la pizza di granturco con cavolo cappuccio. Forse solo perché è il ricordo che arricchisce  del miglior condimento le pietanze.  Non è un caso che Proust in pagine memorabili descrive sensazioni e ricordi riaffiorati col solo portare alle labbra un cucchiaino col tè e una briciola di dolce madeleine: “ da dove mi era potuta venire quella gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce ma che la sorpassava infinitamente…E’ chiaro che essa l’ha risvegliata ma non la conosce, è in me”.  Non è proprio vero-come sostenevano alcuni ingenui materialisti- che noi siamo ciò che mangiamo ( la stessa benzina può servire a una seicento o a una Ferrari) ma il cibo fa parte della nostra cultura. E non è un caso che gli italiani, ricchi di fantasia, abituati per secoli a sopravvivere di espedienti, abbiano una cucina famosa nel mondo.
       Sarebbe un torto rimpiangere quei tempi e non apprezzare l’abbondanza  e l’igiene dei cibi di oggi. Ricordo quelle botteghe di alimentari con scarsa igiene e fornite di merce di ogni tipo, ricordo quel sale nero e umido, quella mortadella che tanto mi piaceva ma scura e affettata male. Anche se ammetto che quel piccolo pezzo di baccalà secco, duro e salato, che da piccolo rubai nel barilotto davanti al bancone del negozio di zia Lisa (io che mai più ho rubato) era tanto buono.
        Oggi i medici invitano a mangiare meno e seguire la dieta mediterranea che in pratica è quella di una volta a base soprattutto di cerali, verdura e frutta. I vantaggi per la salute di questa dieta  furono scoperti da un medico americano – ildottor Keys morto nel 2004 a 100 anni - che nel dopoguerra passava le vacanze nel nostro Sud e si rese conto che si moriva molto meno di infarto rispetto agli americani. Si rese conto che il merito era della dieta. Noi, si sa, non possiamo fare a meno di copiare gli americani soprattutto nei loro difetti compresi quelli alimentari. Il destino si fa beffa degli uomini: una volta il cibo era scarso e la fatica fisica grande, oggi il cibo è abbondante e la fatica fisica scarsa: a Bonefro qualcuno abita vicino la piazza ma non ci arriva a piedi: va in auto (ovviamente parcheggiandola dove è vietato per evitare i pochi metri dal parcheggio).
            Ho detto destino ma temo che sia altro: Omero fa dire a Giove, il re degli dei, che l’ uomo “la stoltezza sua chiama destino” (Odissea Libro I ).

            Mi chiedo perciò che senso abbia raccontare come si mangiava allora. E’ nostalgia per un passato vicino ma pure già tanto lontano? E’ orgoglio per il progresso fatto e l’abbondanza raggiunta? E’ scaramanzia per esorcizzare un ritorno ai bisogni del passato? E’ un invito a pensare alla fame attuale di alcuni e lo spreco di altri?
            Quel piccolo mondo nel quale mangiare era ancora un problema per molti (ma quel piccolo mondo che racconto era uno dei tanti piccoli mondi alle prese con gli stessi bisogni) e nel quale ogni boccone era frutto di grande fatica, potrebbe essere un punto di riferimento e di partenza. Quando si parte- anche quando si va molto lontano- bisognerebbe ricordare sempre il punto di partenza. Non si torna mai indietro, il passato non esiste è solo nella nostra mente ma è bene ricordare che la crescita economica non è necessariamente continua: può fermarsi e ci possono essere momenti di difficoltà e di rinunce. L’abbondanza di oggi non è garanzia per domani. La crescita non può essere infinita e qualcuno comincia a farci ragionare su una decrescita: per ridurre lo spreco, per rispettare la natura. Quel piccolo mondo di Bonefro – come di tanti altri paesi- ci può insegnare molto: che se la povertà tende a creare infelicità, l’abbondanza non crea necessariamente felicità. Ci si abitua ad essa e il superfluo finisce con essere considerato necessità e diritto.
            Se l' alimentazione fa parte essenziale della cultura umana, non c'è da meravigliarsi che nella nostra attuale cultura dove il danaro è padrone dell' uomo il cibo è divenuto strumento di speculazione  e soggiace alle mode. Oggi la vista- cioè l'apparenza- domina la nostra vita: la rosa deve essere vistosa come labbra siliconate e non importa se ha perso il profumo; la frutta deve essere grande, lucida, disponibile in ogni periodo dell' anno e non importa se non ha sapore; se presenta una sola macchiolina viene scartata ( ma siamo noi a pagare anche gli scarti, in un modo o nell’altro). Provate a mangiare ad occhi chiusi uno di quei pomodori grandi, duri, scenografici dei supermercati: non vi sembra di mangiare un pomodoro, non ha profumo, non ha sapore. La verdura che si prendeva nei campi (i marium', i chescign', a ped-rosc' ecc..) era ben altra cosa di quella del supermercato. Credo che un bevuta d’acqua fresca dalla giarra, presa al Ciciliano o a Mastro Cosimo desse più piacere della nostra acqua- magari minerale-  presa dal frigo.
            Sarebbe stupido rimpiangere quei tempi disprezzando l’ abbondanza e le comodità di oggi ma ogni tanto dovremmo ripensare al punto di partenza. Forse a questo potrebbe servire ricordare quei tempi, guardare da dove siamo partiti: imparare a navigare meglio nella vita, fare buon uso delle risorse, evitare sprechi, recuperare solidarietà, imparare dalla natura e rispettarla. Mangiare meno, mangiare meglio. Per rispetto non solo della natura che non va depredata e offesa ma anche di noi stessi recuperando quel senso della misura che ci fa non padroni ma buoni amministratori di un mondo del quale siamo ospiti, che ci è stato consegnato pulito e che corriamo il rischio di trasformare in una discarica.

Dott. Nicola Picchione