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LA STRADA BIANCA


            A Bonefro la strada si chiama “vienov’ ”, cioè via nuova. Ritengo che la voce dialettale sia nata con la costruzione della strada principale che attraversa il paese. Nella foto che credo sia la più antica di Bonefro, ho provato a ingrandire lo scorcio della piazza: non c’è ancora la strada ma solo una traccia in terra battuta. La “vienov” fu costruita- mi diceva mio padre- nel 1890-92. Da notare che quando fu costruita l’altra strada (via del Monte poi via Caduti di via Fani sull’onda emotiva - cattiva consigliera- del rapimento di Moro) fu denominata “vienovenove” ripetendo l’aggettivazione per la seconda volta a indicare che vienov era ormai termine generico di strada che non fosse di campagna, sterrata. La strada rimase bianca sino ai primi anni 50. Ogni tanto veniva rinnovata la breccia preparata dagli spaccapietra che, seduti sul ciglio della strada, con in testa un fazzoletto legato ai quattro angoli per ripararsi dal sole, frantumavano le pietre con un grosso martello formando mucchi ben ordinati di breccia. Verso la fine comparve una massiccia rumorosa macchina che svolgeva il compito. Lentamente la breccia cosparsa sulla strada si affinava sino a trasformarsi in polvere d’estate e fango con la pioggia; poi si consumava e la strada assumeva l’aspetto di un magro dorso con un’ossatura centrale e tanti fossi laterali che la pioggia trasformava in pozzanghere ( i “cutini”) che sputavano acqua e fango al passaggio di qualche rara auto. Non mancavano le “centrelle”, i chiodi delle scarpe dei contadini che bucavano le gomme delle poche e vecchie biciclette e si conficcavano nei piedi di tanti ragazzi che giravano scalzi. I ragazzi alle automobili preferivano gli autocarri ai quali si attaccavano facendosi trasportare per poi sganciarsi spesso cadendo: quasi tutti ne portavano il marchio di croste di sangue rappreso alle ginocchia. Numerosi, invece, erano i “traini” dalle grandi ruote cerchiate di ferro e i carri agricoli.
            Questo nastro bianco cangiante a seconda delle stagioni era uno dei palcoscenici del paese, con la sua sceneggiatura e i suoi protagonisti. Le stagioni facevano mutare la scena. Protagonisti erano soprattutto i ragazzi e i contadini ma gli artigiani non erano da meno con le loro botteghe che si affacciavano sulla strada. Il fabbro e maniscalco  davanti alla cui bottega erano messi la mattina gli aratri; asini muli cavalli erano in attesa d’essere ferrati o, d’estate, tosati; il falegname che esponeva al sole le sue tavole da stagionare o si piazzava sull’uscio a lavorare;  il barbiere che mentre insaponava rispondeva dall’interno della bottega al saluto di un passante. Salutare era un dovere. Rimanevano antichi saluti, scambiati sin dai tempi di Socrate: dove vai? Da dove vieni? Così inizia il Fedro di Platone. Non era curiosità e non ci si aspettavano risposte precise ma solo quelle rituali: “ndo vu ji” oppure si chiedeva a chi era seduto davanti casa: che fai? La risposta era anch’essa antica: “Che vu’ fa”. Era il modo di mantenere i rapporti tra chi passava e chi era davanti casa. Si imparava da ragazzi. Quando si andava al Ciciliano a riempire una giara d’acqua fresca bisognava chiedere al vecchio seduto davanti casa: “Vuoi bere?” anche se si sperava in una risposta negativa per non tornare indietro a riempire di nuovo la giara che si doveva portare a casa piena sino all’orlo per non avere rampogne.
             Anche gli animali erano attori non secondari di quella vita di strada: le galline che razzolavano numerose alla ricerca di vermi nella polvere e le chiocce con i pulcini che fuggivano spaventati al passare di un’ auto; i cani che si mettevano a correre appena vedevano gruppi di ragazzi, sicuri che li avrebbero presi a sassate; il maialino di S. Antonio che girava da padrone di casa in casa con le sue orecchie mozze di riconoscimento a prendere il cibo che gli si dava in onore del Santo sino a quando nel giorno della festa veniva sorteggiato al palio. Altri animali avevano il loro orario: quelli da soma passavano la mattina ancora col buio per andare ai campi con i padroni, ritmando il passo sulle pietre, e tornavano la sera dopo il tramonto, con passo più lento, formando lunghe fila con il padrone in groppa tra l’aratro e la bisaccia e con la donna  con la cesta in testa spesso con la mano attaccata alla coda dell’animale per alleggerire il cammino dopo la lunga e dura giornata di lavoro. Ma i veri padroni della strada erano i ragazzi. Nel pomeriggio la riempivano, giocando, correndo, urlando. Nel dopoguerra Bonefro contava più di cinquemila anime. I ragazzi erano tanti. In molte famiglie ce n’erano 4 o 5 e più. Non tutti si potevano permettere di giocare. I figli dei più poveri sin dagli 8-10 anni venivano mandati a padrone, senza nemmeno frequentare la scuola, e passavano mesi in campagna a pascolare pecore, capre o maiali in cambio di poche lire che, però, erano importanti per la sua famiglia; altri, usciti da scuola, andavano nei campi ad aiutare i genitori; altri, più fortunati, venivano mandati a bottega per imparare un mestiere. Molti altri ragazzi passavano il pomeriggio per strada sino a quando la madre non li richiamava a gran voce per la cena o per ordinare un “servizio”. Alla fine, tutti i ragazzi- eccetto quelli confinati in masserie lontane- riuscivano a trovare il tempo per vivere sulla strada. Essa era il loro regno, il luogo del vivere insieme giocando, correndo, litigando, vincendo o perdendo, spartendosi la frutta rubata nei campi, imparando parolacce, apprendendo le prime vaghe nozioni di iniziazione sessuale dai più grandi che fingevano di mandarli via. La strada era la palestra, la loro scuola di vita che fortificava il corpo e insegnava loro a vivere in comunità. Il variare dei giochi era il metronomo che segnava il cambio delle stagioni: ognuna aveva i suoi giochi che cambiavano come per un tacito accordo. Nelle sere d’estate la strada viveva la sua epopea con un braccio di ferro tra i contadini  la lunga fila delle loro bestie di ritorno dal lavoro e i ragazzi: i primi a interrompere i giochi col loro passaggio, i secondi a intralciare il ritorno  a casa. I ragazzi avevano un altro avversario: la guardia municipale: spettro vestito di scuro che girava continuamente, pronto a rimproverare, minacciare, colpire col frustino di salice, sequestrare la palla (poco male: spesso era di cenci). Tutto questo riguardava i maschi: le ragazze dovevano rimanere a casa. Ma di questo avremo modo di riferire.
            D’estate sui marciapiedi rosseggiavano le meselle di legno poggiate sulle sedie, col passato di pomodoro steso a concentrare che ogni tanto un ragazzo rubava col dito fuggendo. D’autunno molti marciapiedi erano coperti da larghi teli dove era sparso il granturco ad asciugare al sole, guardato dalle vecchie per allontanare le galline. Nei tinacci gli asini trasportavano l’uva che i ragazzi cercavano di rubare. D’inverno la strada risuonava delle grida dei maiali che venivano scannati sui marciapiedi. Poi la neve copriva la strada, decretava il riposo dal lavoro dei campi. Parlava il silenzio che assorbiva i suoni attenuandoli, addolcendoli, allontanandoli e sospendendoli nell’aria.  Si preparavano le tagliole per gli uccelli ma appena usciva il sole si tornava fuori e si giocava con la neve.
            La strada aveva i suoi odori. La sera, quando le donne tornavano dai campi e dai comignoli cominciava a salire il fumo azzurrognolo che sembrava quasi mescolarsi col volo delle rondini il cui garrire riempiva l’aria, si avvertiva il profumo del lardo fritto con la cipolla o della salsiccia cotta per il giorno dopo per i mietitori. Ma c’erano gli odori cattivi, quelli che venivano dalle stalle e dal porcile. C’erano tante mosche d’estate. Non esistevano i cassonetti e i rifiuti erano quasi assenti: dove c’è miseria, tutto serve. Mancava la plastica, pochi leggevano i giornali che servivano per le cartine delle sigarette. C’era poco da buttare. Le strade erano tenute pulite dagli spazzini che raccoglievano la poca spazzatura, soprattutto gli escrementi degli animali, con lunghe scope di ginestre in un carretto che tiravano con una fune passata sul petto.
            La strada, dunque, non era una passiva striscia di passaggio, esprimeva la vita del paese animata da voci, rumori e suoni. Accoglieva tutto e tutti. Esponeva come in una magica vetrina la vita del paese. Vedevi sull’uscio delle case i vecchi prendere il sole con la pipa di creta in bocca . La sera potevi sentire i giovani passare cantando le canzoni di successo o canti a dispetto. Potevi vedere qualche gruppetto di persone prendere il fresco davanti casa e parlare, raccontare, commentare i fatti del paese visto che tutti sapevano tutto. Gli animali sparivano ma si accendevano le mille scintille delle lucciole tra le fratte di sambuco che delimitavano gli orti confinanti con la strada, poi progressivamente spariti per costruire case. L’illuminazione era scarsa e potevi contare le stelle (guai, però, a indicarle col dito: ti nasceva un porro sulla mano!).

            Poi la strada fu asfaltata. Divenne una strada moderna. Non fu più bianca né fangosa né polverosa né coperta degli escrementi degli animali. Scomparvero asini, muli, cavalli, galline. Anche le mosche scomparvero col DDT. Divennero sempre più rare anche le lucciole. Insomma, arrivò il progresso. Si aprirono le porte dell’emigrazione. La strada vide gente con la valigia di cartone legata con lo spago prendere il pullman e andare via. Molte botteghe rimasero chiuse per sempre  poi si chiusero anche molte case. Le stalle divennero garage. A segnare il desiderio di modernità, la nobiltà di molti muri a pietra delle case fu coperta dal cemento dell’intonaco colorato. La strada si riempì di auto e moto sempre più veloci. Scomparvero dalla strada anche i ragazzi che furono sempre meno. I pochi cominciarono a inchiodarsi davanti alla TV. Il paese iniziò il suo declino come una persona prima forte e robusta poi stanca e debole.
            Sul primo strato di asfalto furono messi altri strati; come cerchi di un albero quegli strati sovrapposti potrebbero indicare il passare del tempo di Bonefro. Ora la strada è una scura striscia percorsa da poca gente frettolosa  che non può fermarsi a parlare con qualcuno che non c’è. Ai lati tante porte chiuse per sempre. E’ una strada comoda, senza cattivi odori, senza galline, senza mosche, pulita con i moderni cassonetti cassonetti. Senza lucciole. Muta. Senza più vita. Senza più cuore.

Dott. Nicola Picchione