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Tre compagni inseparabili: l’uomo, il cane, il tartufo
di Andrea Daprati


Capita sovente di vederlo comparire come dal nulla, sbucato all’improvviso tra le nebbie autunnali di un fondo valle, il berretto calato sugli occhi, il fare furtivo, quasi guardingo, il cane al seguito a formare un tutt’uno e, un attimo dopo, subito sparire tra i fumi incerti di un alba opaca, lasciando dietro sé solo l’alone di un mistero antico che ancora lo circonda.
In Oltrepò Pavese, ovvero in quella parte meridionale della Lombardia che si estende dal fiume Po fino all’Appennino, caratterizzata da pianure e alture minori coperte d’alberi e boscaglie che disegnano piccole e grandi valli, là vive ancora il regno del “trifulè”, il cercatore di tartufi che, oggi come secoli fa, si avventura alla ricerca del prezioso fungo ipogeo: il tartufo bianco pregiato, ovvero il Tuber Magnatum Pico.
Qualche cenno storico
Le prime citazioni relative al tartufo risalgono addirittura alla civiltà Babilonese ed a quella Egizia (3000 – 2500 a.C.) anche se, probabilmente, si fa riferimento alle specie appartenenti al genere Terfezia (tartufi delle sabbie).
Conosciuti ed apprezzati dai Greci e dai Romani, i tartufi delle sabbie prima, ed i veri tartufi successivamente, vennero decantati da scrittori e poeti e particolarmente ricercati per le mense più ricche. Sulla loro natura furono formulate le più curiose congetture: il medico e botanico greco Teofrasto di Efeso (370 a.C.) sostenne che i tartufi fossero “vegetali privi di radici originati dai temporali autunnali”, Cicerone (sec. I a.C.) li definì “figli della terra”, Plinio il Vecchio (sec. I d.C.) li suppose “callosità della terra e miracolo della natura”, l’imperatore Nerone (sec. I d.C.) li chiamò “cibo degli dei” e, per Porfirio (sec. I d.C.), i tartufi erano nientemeno che “figli degli dei”.
Fu soltanto nel 1788 che Vittorio Pico, nella sua tesi di laurea discussa a Torino, diede al tartufo bianco del Piemonte la denominazione di Tuber magnatum Pico. Ma solo successivamente, nel 1831, grazie alla Monographia Tuberacearum”di Carlo Vittadini, considerato il padre della moderna Idnologia (la branca della Micologia che studia i funghi ipogei), i tartufi ottennero la loro giusta collocazione sistematica.
Carlo Vittadini (1800-1865), medico e botanico, fu assistente presso la facoltà di Botanica dell’università di Pavia e lì, raccogliendo l’esortazione del Fries, da lui definito “principe dei micologi”, rivolta agli studiosi italiani perché affrontassero lo studio dei funghi ipogei, vi si dedicò con passione. Dapprima frequentò i mercati di Pavia e Milano, dove ebbe modo di conoscere i tartufai oltrepadani che in quei mercati portavano i loro ritrovamenti, poi con gli stessi tartufai, e in seguito da solo, percorse in lungo e in largo l’intero Oltrepò; località come Iriae (Voghera), Calcababio (Lungavilla), i colli oltrepadani, sono citate nella sua Monographia Tuberacearum quali luoghi di ritrovamento del Tuber Magnatum Pico e di numerose altre specie di ipogei, da lui magistralmente descritti. Quegli stessi luoghi sono oggi conosciuti dai micologi di tutto il mondo con l’appellativo di “territori vittadiniani”.
Il cercatore di tartufi
La ricerca dei tartufi vanta tradizioni antiche e nobili. Tra i “tartufai” di maggior prestigio vengono citati Re Luigi XV ed i Reali di Savoia; come ci racconta Giovanni Bernardo Vigo (Tubera Terrae, 1776) questi ultimi erano soliti tenere vere e proprie mute di cani appositamente addestrati per la ricerca dei tartufi presso le loro tenute di caccia e partecipare essi stessi alla ricerca, donando ai Regnanti di tutta Europa i migliori esemplari di tartufi piemontesi.
Abitudine questa che è stata mantenuta fino ai tempi recenti, quando Giacomo Morra, famoso commerciante di tartufi di Alba, nel 1951 fece dono al Presidente degli Stati Uniti d’America, Harry Truman, di un esemplare di Tuber magnatum di ben due chili e cinquecentoventiquattro grammi, il più grosso tartufo bianco mai trovato e il cui valore di mercato, ai giorni nostri, raggiungerebbe cifre da capogiro (secondo i vecchi tartufai oltrepadani, il tartufo è stato rinvenuto in Oltrepò e ceduto a Morra da Orazio Negri, a quei tempi famoso commerciante oltrepadano di tartufi ).
Da qui è facile intuire come i tartufai ancora oggi mantengano il più assoluto riserbo circa i segreti ed i trucchi che compongono il bagaglio della loro esperienza: questi formano il substrato sul quale si accresce l’abilità di ricerca, che sfocia nel ritrovamento delle ambite “prede”. La conoscenza dei “posti” dei tartufi, la capacità di mantenerli segreti, la destrezza nell’anticipare il rivale, sono tutte prerogative che consentiranno al tartufaio di vincere la competizione per aggiudicarsi il maggior numero di ritrovamenti. In realtà, quindi, il fascino che avvolge la ricerca del tartufo, altro non è che il paravento dietro cui si celano l’abilità e l’intelligenza dell’uomo, che si avvale della collaborazione di un compagno insostituibile ed a lui complementare: il cane.
Il cane da tartufi
            Mai come nel caso della ricerca del tartufo, il binomio uomo-cane, unendo in simbiosi perfetta l’arguzia del primo e le capacità sensoriali del secondo, trae profitto dal reciproco vantaggio che ne deriva e che si realizza nel ritrovamento della preziosa preda.
            Premettendo che il cane da tartufi per antonomasia è, come sogliono dire i vecchi tartufai, “quello che li trova”, tuttavia la scelta del cane è il primo e più importante atto - peraltro non disgiunto da un certo impegno economico - da compiere per cimentarsi nella attività di ricerca. Una volta era il “bastardino” il cane che veniva impiegato per la ricerca dei tartufi, ma oggi ci sono allevatori e addestratori che attuano una vera e propria selezione tra le razze canine da caccia, per concentrare in un unico individuo le migliori caratteristiche adatte a questa attività. L’addestramento cercherà poi di “sostituire” nel cervello del cane la naturale propensione per la selvaggina con l’esclusivo interesse verso il tartufo. 
Le doti fondamentali che devono avere i “cani tartufai” sono: l’olfatto, la resistenza alla fatica, la taglia ottimale, la capacità di apprendimento e il colore della pelliccia. Un ottimo olfatto è basilare per cogliere le prime emanazioni del tartufo quando questi, nel sottosuolo, inizia la propria fase di maturazione; il cane che saprà farlo più precocemente di altri potrà assicurare al compagno tartufaio l’ambita preda. La resistenza alla fatica consentirà al cane di mantenere intatta la capacità di ricerca per lungo tempo, favorendo così la possibilità di ritrovamento dei tartufi anche dopo ore di attività. La taglia ottimale gli permetterà di adattarsi al tipo di territorio nel quale dovrà cimentarsi: nel caso di ambiti particolarmente intricati di rovi e arbusti, la taglia ridotta permetterà al cane una miglior capacità di penetrazione per giungere al tartufo. Il colore della pelliccia sarà importante nel caso che il tartufaio si rechi a cercare tartufi anche di notte: in tal caso la pelliccia del proprio cane dovrà essere necessariamente chiara, facilitandogli così l’individuazione dell’animale durante le fasi di ricerca e ritrovamento dei tartufi.
Ma la peculiarità a cui il tartufaio non potrà rinunciare è la capacità di apprendimento del proprio cane. Il possesso di questa dote farà di quel cane l’arma vincente nei confronti dei rivali. Lo aiuterà durante la lunga fase dell’addestramento, gli consentirà di capire prima e meglio cosa il tartufaio vuole da lui, gli permetterà di diventare il compagno di ricerca insostituibile, mettendo in atto gesti appena accennati, percependo richiami appena bisbigliati, attuando incitamenti appena mormorati, più volte richiesti  e sempre interpretati con abnegazione, fino all’individuazione del tartufo, che rasperà con vigore nel punto dove il profumo avrà appena impregnato il terreno, arrestandosi subito, per non scalfirlo, al comando del tartufaio; poi aspetterà paziente il boccone in premio e una carezza, e ringrazierà, festante, tra un balzo ed una scodinzolata.
Alcune curiosità
Così il tartufo, dalle mani sporche di fango del cercatore, giungerà ripulito e odoroso alla tavola dei buongustai, pronto per soddisfarne il palato esigente e rivelare le sue presunte o reali proprietà afrodisiache.
Già nelle parole del filosofo Aristotele (sec. IV a.C.) era evidente come il tartufo influisse positivamente sulle capacità amatorie, tanto da farne “un frutto consacrato ad Afrodite”, dea dell’amore. Più tardi il medico Galeno (sec. II d.C.), lo prescrive a pazienti facoltosi come gli imperatori Commodo e Marco Aurelio, in quanto “induce un’eccitazione naturale che predispone alla voluttà”.
Il Platina, nella sua De honesta voluptate (Venezia, 1475), così ne parla: “E’ questo un cibo molto nutriente ed è un eccitante della lussuria. Perciò viene servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere molto preparati ai piaceri di Venere”.
Non faceva certo mistero delle “proprietà” ad esso attribuite Madame Pompadour, che, nella celebre soupe che porta il suo nome, lo utilizzava come ingrediente principale. Lo stesso imperatore Napoleone, sebbene poco amante della buona cucina, pare ne facesse scorpacciate per incentivare una frettolosa e addormentata “vis amandi”. Gioacchino Rossini, nel ringraziare di alcuni tartufi avuti in dono, scriveva di esserne stato “ringalluzzito e rimbaldanzito”, e il famoso cuoco francese Brillat-Savarin nel definirlo “diamante della cucina”, aggiungeva: “Il tartufo rende più tenere le donne e più appassionati gli uomini, è un capriccio e, come tale, lo apprezzeremmo molto meno se fosse abbondante e a buon mercato”.
Ma ricordiamo sempre che il buon Ce, vecchio ed arguto tartufaio oltrepadano, quando gli chiedevano che ne pensasse di quelle presunte “proprietà”, dopo essersi fatto spiegare il significato della parola “afrodisiaco”, rispondeva, in quel suo vernacolo particolare e inequivocabile: “Afrudisiaca l’è miss Italia, caròcia!”

 

* Andrea Daprati,

    • presidente ARTOP (Associazione dei Ricercatori di Tartufi dell’Oltrepò Pavese)
    • membro del Consiglio Direttivo della FNATI (Federazione Nazionale delle Associazioni dei Tartufai Italiani)
    • membro di alcune Commissioni provinciali lombarde per il rilascio dell’idoneità alla ricerca dei tartufi
    • membro del Collegio di Esperti in Tartufi e Tartuficoltura della regione Lombardia
    • autore di diverse pubblicazioni, tra cui il volume “Sua Maestà il Tartufo”, Todaro Editore, 2000.