di Nicola Picchione  
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IL TUMORE

 

 

“Professore i miei ossequi. Che cosa vi posso preparare questa mattina? Abbiamo una vitella che è la fine del mondo e un agnello molto tenero che ho macellato proprio ieri sera”.
 Pasquale troneggiava dietro il suo banco. Il camice bianco non ancora macchiato di sangue accentuava il color rame dei capelli folti e ricci e il rosso che incendiava il suo viso rotondo e gioviale di grande bambino.
            “A voi professore riserbiamo i tagli migliori”. Carmela, alla cassa, non era meno imponente del marito. Mostrava più dei suoi 28 anni.  Sul suo viso olivastro racchiuso dai capelli lunghi e neri risaltava il bianco degli occhi grandi  appena cerchiati da occhiaie.
            Il professor De Bernardis  si girò verso di lei, accennò  un sorriso come può fare chi non sa sorridere, muovendo appena i sottili baffetti neri, toccandosi il cappello con la mano in segno di saluto e tornando  ad esaminare i tagli di carne esposti sul bancone. Due volte la settimana entrava nella macelleria di buon mattino e ordinava la carne che poi Rosina, la sua domestica, passava a ritirare. Il professor De Bernardis era il Direttore dell’Ospedale, chirurgo di fama che richiamava pazienti anche da lontano. Operava anche nella Casa di cura  “Nostra Signora della Salute” che era considerata una sorta di appendice di lusso dell’Ospedale civile.
            Non era un gran cliente, il professore. Non solo mangiavano poca carne, lui e la moglie, ma il suo pasto principale sarebbe stato per Pasquale meno di un boccone. E non si riusciva a capire da dove traesse tanta energia da quel corpo così minuto. La mattina in sala operatoria o in corsia, il pomeriggio in Casa di cura di nuovo a operare e poi a visitare i suoi pazienti. E non lavorava molto per danaro, visto che possedeva tutto quanto si poteva desiderare e non aveva figli.
            Mentre Pasquale metteva da parte la carne ordinata, il professore si avvicinò alla cassa, accolto da un gran sorriso di Carmela.
            “Vedrà che squisitezza, professore. Non avrà bisogno neanche di masticarla”. Il professore era di poche parole. Basso, molto magro, vestito di scuro (scura anche la cravatta sulla camicia bianca), incuteva rispetto e stima. Tutti in città si sarebbero affidati ciecamente alle sue mani. “Quello che gli altri non osano fare, lui lo fa benissimo” si diceva. Averlo come cliente era considerato un onore da Pasquale e Carmela.
            “Professore, posso un attimo approfittare di voi per un consiglio?”. Carmela parlò quasi sottovoce.
            “Se posso essere utile, volentieri” le rispose il professore.
            “Da molti giorni mio marito non… scusate la sfacciataggine, non va di corpo”
            “Ha provato a prendere un purgante?”
            “Sono già due volte, senza risultato. La seconda volta anche  due cucchiai di olio di ricino…”
            “Ma da quando non evacua?”
            “Come dite?”
            “Da quanto tempo non va di corpo?”
            “E’ ormai una quindicina di giorni, professore”
            “E prima era mai successo?”
“Mai, professore. Era un orologio. E’ cominciato tutto dopo che siamo stati da sua sorella che voi dovreste ricordare perché l’anno scorso è venuta a farsi visitare da voi. Fummo noi a convincerla a fare il viaggio e venire…”
“Ha mangiato qualcosa di particolare dalla sorella?”
            “No, professore. Siamo rimasti due giorni e da allora più niente. Mi preoccupo perché da alcuni giorni ha mal di pancia. Corre al gabinetto ma niente da fare, ogni sforzo è inutile. Ora comincia ad avere meno fame. Pensate, uno come lui che mangia poco. Una pena. Ha cominciato anche ad avere un alito cattivo e la sua pancia la notte fa dei rumori come se bollisse una pentola di fagioli. Abbiamo provato anche a fare un clistere. Niente”. Carmela allungò il collo, come per avvicinarsi e sussurrò al professore: -“Sono preoccupata”, socchiudendo gli occhi.
            Pasquale spostava i tagli di carne sul bancone ma le frequenti occhiate verso i due che parlavano tradivano la sua tensione e testimoniavano l’accordo che c’era con la moglie per sentire il parere dell’illustre medico. Entrò un cliente e Pasquale non fu più in grado di intercettare il colloquio. Appena soli, le chiese:
            “Che ti ha detto?”
            “ Che devi stare tranquillo e avere pazienza ma è meglio farsi visitare. Pasquale, a noi i soldi non mancano, grazie a Dio. Ci dobbiamo togliere questa soddisfazione.  Il professore mi ha dato un appuntamento per domani sera alla signora".
            "Quale signora?", chiese Pasquale.
            " La chiamano così la casa di cura. E’ stato tanto gentile, ci ha aggiunto alla lista già piena. Giusto il tempo per chiudere qui e arrivare da lui”.
            La visita fu lunga e minuziosa, con tante domande. Le abili mani del professore palparono ogni piccola parte della pancia globosa di Pasquale e, infilati i guanti di gomma, il suo dito entrò ad esplorare quanto più a fondo possibile, con disappunto di Pasquale che se non si fosse trattato di questione così importante non avrebbe accettato una tale procedura che considerava quasi un affronto, anche se praticata da un professore.
            “Professore che ci dite?”, la voce di Carmela quasi implorava una risposta definitiva e rassicurante. Pasquale, rivestendosi, guardava come un grosso cucciolo inerme il volto impenetrabile, lungo e grigio del professore.
            “ Bisogna fare i raggi per essere tranquilli” fu la risposta mentre il professore  seduto alla scrivania  iniziò a scrivere su un foglio del suo ricettario.
            “Ci vorrà tempo?”, chiese Pasquale. Era rimasto in piedi, con le grosse mani appoggiate allo schienale della sedia, costretto a curvarsi per la sua altezza. I capelli ancora arruffati e l’aria interrogativa del viso esprimevano la sua preoccupazione. Un lembo di camicia era rimasto fuori dai pantaloni:
            “Rimetti a posto la camicia- gli  disse Carmela; poi, rivolta al professore- Possiamo andare a fare i raggi a nome vostro, professore? Basta il vostro nome per aprire tutte le porte”.
            Uscirono ma quando già erano per strada, Carmela mormorò come tra sé ma tanto da farsi sentire dal marito:
            “Che stupida, ho lasciato la borsa sulla sedia. Avviati, torno a prenderla e ti raggiungo”.
            Pasquale non sospettò. Carmela rientrò nello studio:
            “ Chiedo perdono, professore. Ho lasciato la borsa per tornare da sola e chiedervi qualche notizia in più. Che avete trovato a Pasquale?”
            “Vorrei sbagliarmi ma sospetto che la massa che si apprezza nella parte bassa dell’addome sia un tumore”.
            Carmela si sentì colpita da una mazzata. Quella parola era quasi innominabile, una condanna senza scampo. Le sembrò di non vedere più; poi le parve che tutto le venisse addosso e la schiacciasse. Si appoggiò alla sedia. La voce del professore le sembrò  salire da un abisso. Riuscì a capire: “… ce lo diranno i raggi”.
            “Professore, voi non avete bisogno dei raggi, le vostre mani capiscono più delle macchine. Ditemi, per piacere, che cosa bisogna fare?”
            “Per ora nulla; aspettare l’esame. Deve mangiare poco e bere molto”.
            Carmela stava uscendo. Si girò:
            “Per favore, professore, a lui non diciamo niente. Chi lo vede così grande e robusto ma è un bambino. Si spaventa con niente e ha molta paura delle malattie. Sapete, è sempre stato bene”.
            Uscì, respirò profondamente più volte. L’aria fresca le sembrò ridarle forza.
            “ Come mai ci hai messo tanto?” le chiese Pasquale che non si era allontanato.
            “ E’ sembrato a te ma non mi sono trattenuta”.
            Camminarono l’uno affianco all’altra, senza parlare. Aveva piovuto per poco ma , come accade spesso in Aprile, il cielo si era subito aperto anche se ormai era sera e rimaneva solo il residuo di una luce fioca verso occidente. La strada bagnata rifletteva qualche rara insegna luminosa.  Poca gente frettolosa ancora col cappotto passava sul marciapiedi. Qualche moto e qualche auto rompevano il silenzio.
            Carmela mise il suo braccio sotto quello di Pasquale:
            “Fa ancora freddo” disse per rompere il silenzio che le pesava.
            “ Che ti ha detto il professore?” chiese  Pasquale.
            “Niente di più di quello che ha detto anche a te. Dobbiamo aspettare i raggi”.
            Tornarono a casa. In due si sta bene quando tutto va bene, pensò Carmela, ma quando hai una pena nel cuore e non puoi confidarti ti senti prigioniera. A volte, le venne in mente, basta una parola per cambiarti la vita. Tutto sembra che vada bene, tu pensi al futuro, al commercio, alla famiglia. Ti svegli e cominci la giornata piena di forza e di volontà; esci e ti senti contenta, vorresti salutare tutti anche il cane che ti passa affianco. Poi, basta una parola e tutto ti crolla addosso. Che ne sarà di noi? Le venne un groppo alla gola.
“ Provo”, udì Pasquale che si rinchiuse nel bagno.
            “ Mi vado a cambiare” gli urlò Carmela dalla porta e si rinchiuse in camera da letto. Si spogliò. Il seno era turgido e i capezzoli grandi e scuri. Era quasi certa di aspettare un bambino ma voleva una conferma prima di dirlo a Pasquale. Lui voleva tanti bambini e Carmela si era preparata da tempo a pensare come gli avrebbe dato un giorno la notizia. Era sicura: lui avrebbe pianto di gioia. Pasquale era facile alla commozione e le faceva molta tenerezza vedere un uomo così grande con le lacrime agli occhi. Le veniva voglia, allora, di stringerlo al petto e accarezzarlo. Gli occhi le si inumidirono e calde lacrime le scesero sul viso. Avvertì la sensazione di un guscio che le stringesse il cuore. Cominciò a singhiozzare.
             “No – pensò – non debbo farlo. Guai se lui mi vedesse in questo stato. Non deve accorgersi di nulla. Dovrò mostrarmi serena, dargli fiducia e forza”. Indossò una veste da lavoro, si pulì il viso ed uscì dalla camera. Pasquale era ancora in bagno.
             “Niente – disse quando ne uscì – sento lo stimolo, mi faccio uscire gli occhi in fuori per lo sforzo. Proprio niente”.
             “ Non ci pensare, si risolverà. Senti, mi è venuta un’idea. Che facciamo qui, soli? Lavoriamo tutto il giorno, non ci dobbiamo far vincere dalla stanchezza. Perché non andiamo a cinema? All’Odeon danno un film nuovo, “Catene”. Antonietta mi ha detto che è molto bello e sentimentale , l’ha fatta piangere tanto”.
            “ Ti pare che abbiamo bisogno di piangere per i guai degli altri?”
“Che vuoi per cena?”
“Non ho fame”.
             Carmela accese la radio. Desiderava che in casa non ci fossero solo loro due. Una voce per rompere la loro solitudine, anche se proveniente da quel mobile bar elegante che avevano comprato per il loro matrimonio, del quale lei era orgogliosa ed ogni tanto lo apriva per vedere le poche bottiglie di aperitivo e liquori che si riflettevano negli specchi illuminati dalla lampadina che si accendeva automaticamente quasi per miracolo quando apriva lo sportello..
         “ Ascolta quanto è bella questa nuova canzone di Claudio Villa” disse Carmela.  Pasquale non rispose.
I raggi confermarono il sospetto del professore. Carmela era andata a ritirare le lastre (“Non possiamo chiudere la macelleria, andrò io a ritirare gli esami” aveva detto). Aveva letto il referto senza capire molto ma le parole “massa rotondeggiante” la spaventarono. Era andata di corsa dal professore che aveva guardato ogni lastra. Il suo viso percorso da due rughe profonde lungo le gote scavate non lasciava trasparire emozioni.
            “Sì – disse con voce bassa- conferma il mio sospetto. Non è detto che si tratti di tumore maligno. Comunque, è meglio essere preparati a tutto”.
“Si può togliere questa massa?”
“Si può ma i rischi sono molti ed anche se l’intervento riesce non c’è alcuna garanzia per il futuro. E’ cresciuta troppo”.
Carmela sentiva il cuore battere forte e veloce, le sue mani fredde premevano sulla spalliera della sedia. Fece un respiro profondo quasi a prendere dall’aria la forza di rimanere in piedi.
“Anche se il rischio è grande, bisognerà tentare- disse il professore- ma prima bisogna fare gli esami di sangue”.
            Uscì dall’ Ospedale sconfortata. “Il professore ha parlato chiaro. Anzi, credo che abbia voluto illudermi dicendo che potrebbe essere un tumore benigno. Quando mai un tumore è benigno”. Si confidò con la madre che cominciò a piagnucolare ripetendo: “Povera figlia mia”, finendo con irritarla piuttosto che consolarla.
            A Pasquale sembrò che la moglie fosse più nervosa e sovrappensiero. Gli sembrò che rispondesse ai clienti come pensando ad altro. Le notò occhiaie più scure. La sera rimaneva sino a  tardi in cucina come se all’improvviso le faccende di casa si fossero moltiplicate. La notte la sentiva rigirarsi nel letto. Passarono tre giorni da quando Carmela aveva ritirato le lastre. La sera disse a Pasquale:
            “ Abbiamo aspettato già parecchio; non dobbiamo far passare altro tempo. Il professore ha detto che a questo punto l'unica cosa da fare è che ti devi ricoverare e operare. Abbiamo la fortuna di avere in questa piccola città un professore così bravo che ti rimetterà a posto. Avrai tutte le cure ed io sarò vicino a te. Abbiamo dei risparmi e andremo alla Signora dove ti tratteranno meglio”.
            Pasquale non rispose. I suoi pensieri vagavano confondendosi come figure volteggianti in una giostra, lasciando una sensazione di vertigine e di angoscia.
            “Di che cosa mi dovrei operare?”
            “Il professore mi ha spiegato che è come se qualcosa si fosse inceppato. Bisogna stasare, credo”.
            “Che cosa succede se non mi opero? Glielo hai chiesto?”
            “Non puoi andare avanti con l’intestino otturato, alla fine la pancia scoppia”.
            A Pasquale non andava giù l’idea di farsi aprire la pancia. Gli venivano in mente strani pensieri, discorsi sentiti di persone malate e poi morte dopo l’operazione. Cercava di non soffermarsi su questi pensieri, riusciva a cacciarli via dalla mente ma gli rimaneva un profondo senso di angoscia. Inutilmente cercava di non pensare al suo male. Si svegliava e quel pensiero gli saltava addosso come la mannaia che usava per gli ossi. Almeno, pensava, gli animali che macello passano dalla vita alla morte in poco tempo, nemmeno il tempo di rendersene conto ma la mia vita è avvelenata ogni momento da questo pensiero. Cercava di sapere di persone che erano state operate all’intestino ma non riusciva a trovare compagni di sventura. Una sera a letto Carmela  si avvicinò a lui. Gli accarezzò il viso. Gli sembrò che avesse gli occhi lucidi (una piccola lampada sotto il quadro di S. Antonio rischiarava appena la camera).
            “Ora le chiedo di dirmi tutto”, pensò Pasquale. Il sospetto che lei stesse per rivelargli qualche verità sulla sua pancia lo immobilizzò. La voce di Carmela lo prevenne:
            “Pasquale debbo darti una notizia”
            Sentì la mano fredda di Carmela sul suo viso e il cuore gli partì veloce come volesse fuggire lontano. Quasi trattenne il fiato. Pochi secondi gli sembrarono una eternità.
            “Aspetto un bambino”, la voce di Carmela fu un soffio che lo scosse.
            “Sei sicura?”
            “Credo di sì. Prima di dirtelo sono andata dall’ostetrica”.
            Seguì il silenzio.
            “Non sei contento?”
            “Sono commosso. Certo che sono contento”
            Pasquale non pensò più alla sua pancia. Aveva temuto una notizia di condanna ed invece Carmela gliene dava una di  gioia. Vita contro morte, pensò. Scoppiò in un pianto che non riusciva a frenare. Voleva abbracciare e baciare Carmela ma i singhiozzi scuotevano tutto il suo gran corpo ed egli non sapeva se stava piangendo per la buona notizia o, finalmente, per la sua sorte.
           Anche  Carmela piangeva, con pensieri diversi da quelli di Pasquale.

            A Pasquale sembrò che la moglie fosse diventata  più arrendevole verso di lui e che durante il giorno spesso fissasse gli occhi su di lui dalla cassa della macelleria. Lui era diventato più nervoso. Lo attribuiva al malessere che gli procurava quella pancia dura e tesa che ogni tanto gli sembrava risvegliarsi, muoversi all’interno e brontolare. Aveva chiesto un po’ di giorni per decidere se ricoverarsi e farsi operare. Era poco propenso a farsi aprire la pancia, anche se sapeva che alla fine si sarebbe arreso. Pensava a tutte le bestie alle quali egli aveva aperto la pancia (ma dopo che erano morte, sottolineava tra sé) e inorridiva al pensiero della sua,  aperta e – immaginava - sanguinante.
            “Che cosa avrò dentro?” si chiedeva. Sia il professore che la moglie si erano mantenuti sul vago e questo lo preoccupava molto. “Aprire per vedere; forse un budello si è ristretto forse si è  un po’ attorcigliato oppure qualcosa si è bloccato”, solo questo era riuscito a tirar fuori da Carmela. E pensare- si diceva- che questo male è a pochi centimetri dentro di me ma non si può verderlo.
            Seppe la verità per caso. Si era sdraiato sul letto e si era appisolato, dopopranzo come faceva sempre prima di andare a lavorare. Aveva sognato di essere andato in campagna per comprare un vitello che cercava di tirar fuori dalla stalla ma che resisteva con forza. Ad un tratto il vitello urlò ma con una voce acuta e metallica molto strana che lo svegliò. Riconobbe la voce da sorda della suocera. Era in cucina con Carmela. La sentì dire:
 “ Un tumore, Gesù e Madonna, come può essere in uno così forte e sano?”
 Carmela le ingiunse a voce bassa ma non tanto da non giungere sino a lui:
“Sta zitta, Pasquale dorme in camera da letto”.
Pasquale si sentì gelare in tutto il corpo. Forse, se fosse stato in piedi, sarebbe caduto a terra privo di forze. Ebbe la sensazione che il cuore si fermasse e poi si rimettesse a battere correndo come per fuggire.
“Forse ho sognato”, pensò. Gli giunse di nuovo la voce stridula e alta, da sorda, della suocera:
“Questa disgrazia non ci voleva”.
Rimase immobile sul letto. Dalla finestra traspariva l’azzurro quasi uniforme e chiaro del cielo solcato dai primi voli delle rondini. Gli sembrò che quel cielo e quelle rondini appartenessero a un altro mondo e che il suo fosse tutto in quella stanza le cui pareti, ebbe la sensazione, gli si stringevano addosso.
“Forse ho capito male- pensò- sono ancora intontito dal sonno. Forse parlavano di qualcuno e la paura mi ha fatto intendere male. Carmela ha solo detto alla madre di non urlare perché io stavo dormendo. Non hanno fatto un riferimento a me. Lo chiederò a Carmela”. Un po’ rincuorato si mise a sedere sul letto rimanendo a lungo in quella posizione, privo di pensieri e come lontano da tutto ciò che lo circondava. Alla fine si alzò dopo un profondo sospiro e andò a lavarsi il viso nel bagno. Guardò il vater come un nemico muto e testardo. Carmela e la madre erano uscite.
“Appena la vedo, le chiederò di dirmi tutta la verità” pensò “questa volta non dovrà nascondermi nulla”.
             Uscì nel piccolo orto dietro casa. L’orto era la sua passione. Ci passava molto tempo libero. Gli amici non lo invitavano più al bar a giocare a carte e lo prendevano in giro. Ma non era il matrimonio ad averlo cambiato, sosteneva lui, non era la moglie a tenerlo prigioniero. Gli piaceva rimanere là, sapere che Carmela era in casa e lui era là vicino, nell’orto. In realtà era cambiato, dopo il matrimonio. Preferiva la casa al bar, rimanere con la moglie o uscire nell’orto anche quando non aveva da lavorarci. Gli bastava girare, guardare le piante, pensare a ciò che avrebbe seminato. Il ciliegio si era vestito di bianco e i suoi fiori già cominciavano a cadere. I rosi mostravano le gemme turgide e le foglioline giovani. I cavoli, in fila di fronte ai carciofi, raccoglievano ancora gocce di rugiada mentre sembravano aver allargato le foglie lucide e robuste per accogliere i raggi del sole primaverile. Ora non provava ciò che aveva sentito altre volte. Tutto gli sembrava diverso, una festa cui non poteva partecipare. Tutto questo, pensava, continuerà ad esistere anche quando io non ci sarò più. Forse mi sbaglio, sarà solo la paura. Carmela mi dovrà dire tutto.
Ma quando era con lei non era capace di rivolgerle le domande che si era preparato. In macelleria c’era gente; a casa non se ne parlava oppure Carmela si limitava a ripetere le stesse cose per concludere:
“Dobbiamo metterci d’accordo per il ricovero. Vedrai che si tratterà di pochi giorni. Il professore ce lo ha promesso”. Pasquale non ricordava  questa promessa del professore. Segno che Carmela era tornata di nascosto a parlare con lui. Passarono alcuni giorni. Pasquale faceva le sue prove in bagno, si massaggiava la pancia a volte provava a premerla. Passava molto tempo sul vater, con un giornale in mano. Ogni tanto era preso da un dolore sordo al basso ventre che iniziava lentamente e cresceva per poi attenuarsi e scomparire lasciandogli una strana sensazione di benessere.
Una mattina, alzatosi appena Carmela era uscita, si avviò verso il bosco che era poco fuori dall’abitato. Gli piaceva tornare ogni tanto in quel bosco, quando il tempo era bello. Lo conosceva bene sin da ragazzo. Era una giornata tiepida e luminosa. Attraversò il prato coperto di margheritine bianche. Percorse un sentiero che era tra il bosco e il torrente e si sedette lungo la riva. L’acqua del piccolo torrente era limpida, qualche rametto viaggiava trasportato dalla corrente che formava vortici attorno alle pietre. Pasquale guardava l’acqua scorrere, sovrappensiero. Si sdraiò e chiuse gli occhi. Si addormentò. Sognò di essere bambino e di camminare nel bosco e cogliere primule. All’improvviso il cielo, prima sereno, si oscurò e cominciò a piovere. Si  mise a correre ma non riusciva a trovare il sentiero. La pancia cominciò a gonfiarsi sino a urtare contro gli alberi e impedirgli di camminare. Cadde su una pietra e come per miracolo la pancia si sgonfiò ed egli divenne leggero. Si rialzò. Il temporale era passato all’improvviso così come era venuto. I suoi vestiti erano già asciutti e non aveva più freddo. Si sentì leggero tanto da cominciare a volare. Si levò sopra gli alberi e vide il bosco percorso dal torrente splendente al sole; nel prato verde con le margherite che sembravano brillare come piccole stelle c’erano bambini che gli facevano segno di scendere tra loro. Si svegliò. Il sole era alto. Alcuni uccelli cantavano nel bosco, nel ruscello una rana saltò nell’acqua. La sera volle raccontare il sogno alla moglie, tanto per parlare.  Carmela credeva nei sogni, come la madre. Per lei erano messaggi che le anime del Purgatorio mandano ai vivi, difficili da interpretare. Carmela lo ascoltò con grande attenzione  Si riteneva esperta nell’interpetrazione dei sogni. Era capace di parlare a lungo dei sogni suoi e delle sue amiche che si erano tutti avverati, a patto di saperli interpretare perché il loro linguaggio è quello oscuro e ricco di simboli appartenente ad un altro mondo. Aveva imparato dalla madre l’arte di capire i sogni come quella di togliere il malocchio con acqua, olio e formule magiche.
“ Questo sogno dice che tutto andrà bene. Tu ora senti il peso della pancia che ti impedisce di andare avanti ma poi tutto si risolverà e tornerai libero e leggero come prima”. Un dubbio, in realtà, le era venuto: non riusciva a capire il significato dei bambini che erano sul prato mentre lui volava leggero. Se erano degli angeli che chiamavano Pasquale (e questo era un brutto avvertimento) oppure compagni che lo invitavano a tornare sereno tra loro. Naturalmente, non fece cenno al marito di questo dubbio ma la mattina uscì presto e andò dalla madre. Le raccontò il sogno e, per evitare sorprese (sapeva che la madre era pessimista e tendeva a interpretare i sogni in maniera catastrofica) diede la sua spiegazione.
“Pasquale ha riconosciuto quei bambini?” chiese la madre. Carmela intuì il significato della domanda.
“No, perché volava in alto e non poteva riconoscerli”.
“Figlia mia, nei sogni ci si vede bene anche da lontano. I sogni sono segnali che ci mandano le anime del Purgatorio. Non valgono le regole di questo mondo. E’ per questo che è difficile capirli. Nei sogni si vola, si torna indietro nel tempo, i morti tornano ad essere vivi e i vivi possono apparire morti. Le gioie e le paure sono molto più profonde  che nella realtà perché lasciano trapelare ciò che si proverà nell'altro mondo. Perciò si possono distinguere i particolari che hanno un significato anche da lontano. Se Pasquale non ha riconosciuto quei bambini è perché non erano suoi compagni. Forse erano angeli che lo chiamavano. Che disgrazia ti è toccata, figlia mia”
“Ma gli angeli stanno in cielo mentre quei bambini erano a terra”
 “Però mi hai detto che le margherite erano diventate brillanti come stelle”.
Non si trovarono d’accordo. Carmela si pentì di essere andata dalla madre. Andò via con un gran nodo alla gola.

           
            Ormai Pasquale era entrato in quello che chiamava il pozzo della morte. Ricordava che una volta, quando era ragazzo, in una fiera del paese vicino aveva visto il pozzo della morte.Una sorta di enorme pozzo dalle alte pareti in legno. Gli spettatori erano su una balaustra costruita ai bordi del pozzo. Un motociclista iniziava a girare nel fondo con una moto, sempre più velocemente sino a salire lungo la parete del pozzo e girare come sospeso. Girava a grande velocità come attaccato alla parete del pozzo. La moto faceva un gran rumore che rimbombava nello spazio ristretto. Le doghe di legno sembravano singhiozzare sotto la pressione della moto in corsa. Miracolosamente, inspiegabilmente per Pasquale, moto e atleta si mantenevano attaccati alle pareti del pozzo. A Pasquale sembrava che da un momento all’altro dovessero precipitare nel fondo o uscire dal pozzo e volare tra gli spettatori. Poi lentamente la velocità e il rumore della moto diminuirono e l’acrobata raggiunse il fondo del pozzo. Pasquale ne rimase impressionato e quel pozzo divenne per lui simbolo di pericolo e di coraggio, di vicinanza con la morte.  Ora egli, pensava, si trovava in una sorta di pozzo della morte ma non aveva una moto né il coraggio per vincere. Il pozzo era la sua pancia. Gli capitava di guardarsela come volesse interrogarla. Dormiva poco e male, faceva sogni terribili. La mattina la luce rischiarava la stanza e i raggi colpivano il suo viso. Gli piaceva dormire con le imposte aperte e lasciarsi svegliare dai primi raggi del sole che nasceva proprio di fronte. Gli sembrava che quei raggi gli riportassero la vita che il sonno sospendeva e gli dessero l’energia per lavorare il giorno. Ma ora, essi non bastavano più a dargli energia. Per un attimo al risveglio aveva l’impressione di essere quello di prima. Solo per un attimo, poi la realtà tornava ad opprimerlo e quel pensiero ormai fisso lo faceva ripiombare nell’angoscia. Si sentiva stanco. Si tastava le gambe e gli sembrava che stessero svuotandosi come se la sua carne poco a poco si rammollisse e si sciogliesse. Gli veniva da pensare: perché proprio a me? Che cosa ho fatto per meritarmi questo male? Perché tanti altri stanno bene ed io non posso più esserlo? A volte aveva l’impressione che fosse tutto un incubo, un sogno che prima o poi sarebbe finito. Ma poi i dolori alla pancia e le stesse eccessive attenzioni della moglie lo richiamavano alla realtà. Carmela volle che egli rimanesse a letto la mattina e si alzasse più tardi. In macelleria l’aiutava il fratello. Tanto sarà per poco, diceva, il tempo di operarti e guarire.  Ma rimanere solo non lo aiutava anzi lo faceva piombare ancora di più nell’angoscia. Si alzava appena usciva la moglie. Non aveva voglia di  vedere gente e recitare una parte che non gli piaceva. Gli sembrava che tutti sapessero di lui e fingessero di non sapere ma lo guardassero con compatimento. Questo lo indispettiva. Soprattutto gli dava quasi dolore fisico pensare al futuro. Io non ci sarò, pensava, ma tutti questi continueranno a vivere, a mangiare, a lavorare, a divertirsi.
            I giorni si erano allungati e il sole scaldava l’aria anche se un leggero venticello portava il fresco dalle montagne  ancora innevate che si stagliavano all’orizzonte.
            La pancia era diventata il suo incubo. L’affermazione che aveva sentito ripetere dal padre: “Tutto si fa per la pancia" assunse ai suoi occhi un significato particolare. Le gettava sguardi furtivi anche durante il giorno. A casa se la palpava quasi incredulo che là dentro- proprio sotto le sue mani - ci fossero misteriosi processi che interferivano con la sua vita. Cercava inutilmente di non pensarci troppo.

 

            L’idea che Pasquale potesse essere vittima di una fattura fu della madre di Carmela.
            “Non ci posso credere, obiettò lei, Pasquale non ha nemici e non ha mai fatto male a qualcuno”
            “Tu non capisci queste cose. Le peggiori fatture si fanno proprio alle persone come lui. Non puoi sapere se qualcuna si è innamorata di lui e per invidia verso di te gli ha fatto una fattura”
            “C’è modo per verificarlo? Tu sei pratica di queste cose”
            “No, figlia mia, noi non possiamo farci nulla. Primo, perché  i familiari non riescono a togliere le fatture, secondo perché in questi casi ci vuole una magara particolare. Ne conosco una molto brava in un piccolo paese lontano. Le ho mandato varie persone e tutte sono rimaste soddisfatte”.
            Decisero di andare dalla magara. La madre raccomandò a Carmela di preparare un indumento intimo del marito. Non era sicura quale fosse migliore: forse la maglia forse erano più adatte le mutande, visto che il male era nella pancia. Alla fine le consigliò di prenderle entrambe.
            “Mi raccomando, debbono essere state tenute addosso da poco tempo e non debbono essere state lavate”.
            Le disse anche di portare una fotografia di Pasquale.
            Partirono la mattina presto. Al marito Carmela disse che andavano da una parente della madre che stava male. Il fratello minore di Carmela si era fatto prestare un motocarro a tre ruote. Era riuscito a trovare anche una topolino ma la madre era stata decisa: a lei l’auto faceva male e si sarebbero dovuti fermare molto spesso. Volle sistemarsi posteriormente all’aperto su una sedia per prendere aria. Viaggiarono per oltre un’ora percorrendo la strada tutta curve. Spesso la madre batteva col pugno sulla cabina per chiedere di rallentare a causa delle tante buche. Una scia di polvere segnava il loro percorso. Giunsero alla fine nel piccolo paese: poche case basse di pietra grigia in cima ad un roccione. Si fecero indicare la casa di Nunziatina la magara, poco fuori il paese. La trovarono affaccendata davanti casa a gettare il granturco alle galline che le stavano tutte intorno. Magra, alta, con un viso lungo e olivastro dominato da due zigomi sporgenti e dagli  occhi neri e cerchiati,  ogni tanto si ravviava i riccioli scuri che le scappavano da sotto il fazzoletto chiaro legato alla nuca. Strofinò le mani sul grembiule che copriva la lunga gonna, rispose al saluto e le invitò ad entrare. Una grande stanza che forse una volta era bianca di calce ma che il fumo del camino aveva ingiallito. Una  quantità di vecchi mobili di ogni tipo e misura  era ammassata lungo le pareti. La madia accanto al camino, dalla parte opposta il letto sotto il quale erano distese le patate,una credenza in un angolo. Tra il letto e la credenza un  vecchio comò con un piccolo specchio e sul ripiano in marmo una piccola S. Rita e un S. Michele con spada e bilancia protetti ognuno da una campana di vetro picchiettata da escrementi di mosche. Sedettero attorno al tavolo che era al centro della stanza. Carmela iniziò a parlare ma la madre la interruppe:
            “Lascia spiegare a me che me ne intendo e Nunziatina mi conosce almeno di nome perché le ho mandato Concettina la carbonara ,  Giovannina la lavandaia e altre”
            “Sì, mi ricordo”, confermò Nunziatina.
            Le fu spiegata la faccenda di Pasquale.
            “Avete fatto bene a portare le mutande e la fotografia.Ora io mi metto in quell’angolo. Non vi faccio uscire fuori ma voi rimanete qui e non vi preoccupate per quello che succede”.
            La magara andò a sedersi su uno sgabello di legno davanti a un piccolo tavolo sul quale depose le mutande e, sopra, la fotografia. Le pareti di quell’angolo sopra il tavolino erano tappezzate di molte figurine di santi incollate attorno a un crocefisso, anch’esse ingiallite e coperte dei puntini neri delle mosche. Nunziatina mise le mani sulla foto e iniziò a pronunciare parole incomprensibili con una cantilena che sembrava ora un lamento ora un canto. Dondolava il busto come in una sorta di danza lenta e ripetitiva. All’improvviso emise un grido e cominciò a tremare tutta. Carmela e la madre guardavano la scena con preoccupazione. Quando la magara emise il grido e cominciò a tremare, Carmela fece per correre verso di lei ma la madre la trattenne e le fece cenno di rimanere in silenzio. La magara si calmò. Rimase a lungo immobile davanti al piccolo tavolo come se la sua mente fosse assente. Poi si alzò, ormai completamente ristabilita. Il suo viso era coperto di sudore.
            “Pasquale ha una fattura- disse- che gli ha procurato un male. Lui può guarire ma bisogna prima togliere la fattura e poi  deve essere curato dal professore”.
            “Tu le devi togliere la fattura” le  rispose la madre di Carmela.
            “Io vi preparerò quello che è necessario per togliere la fattura”.
            Prese una scodella di legno e ci versò una buona quantità di olio. Aggiunse da una vecchia bottiglia un liquido scuro che a Carmela parve aceto, dall’odore. Poi bagnò le mutande e le strizzò facendo cadere alcune gocce nella ciotola mentre mormorava frasi incomprensibili. Scomparve in un’altra stanza e ne uscì con una vecchia scatola di latta contenente varie boccette scure di vetro. Versò nella scodella  da alcune boccette un certo numero di gocce di liquido scuro, da altre boccette ricavò  piccole prese di polvere di vario colore.
            “ Guai a sbagliare- disse mentre preparava l’intruglio- S. Michele arcangelo ce ne liberi”.
            Riportò la scatola di latta nella stanza affianco, mescolò a lungo il contenuto della ciotola con un cucchiaio che ogni tanto alzava verso le figure dei santi mormorando frasi incomprensibili. Alla fine versò il liquido in una piccola bottiglia. Versò ciò che rimase sulle mutande e tornò verso le due donne. Si rivolse a Carmela:
            “Ascolta molto bene quello che ti dico. Devi mettere queste mutande sotto il materasso del vostro letto. Ricordati bene che non devi lavarle, altrimenti tutto diventa inutile. Tra due giorni sarà luna nuova. Tuo marito dovrà bere questo filtro magico tutto d’un fiato quando va a letto. Dovrà essere digiuno da mezzogiorno e non cenare. Potrà mordere un limone. Per tutta la notte non si deve alzare. Il giorno dopo dovrà ingoiare vive tre lumache malanude e tu devi bruciare queste mutande appena le togli dal letto, tenendo vicino a te la foto di tuo marito. Se fate tutto questo correttamente, la fattura è tolta. A questo punto, tuo marito si farà curare dal professore e con l’aiuto di S. Rita e S. Michele arcangelo guarirà. Io ho fatto quello che dovevo. Ti ripeto: basta sbagliare poco e la fattura non si toglie. Fate attenzione.”
            “Noi ti siamo molto riconoscenti- disse la madre di Carmela- e io ho verificato ora di persona come sei brava e meriti il buon nome che hai. Sta certa che ti manderò ancora più persone”. Tirò fuori dalla profonda tasca della gonna un gran fazzoletto blu, ne sciolse il nodo fatto in un angolo e prese un gran biglietto da cinquecento lire dispiegandolo con cura.
            “Dimmi se va bene così”
“Per te va bene così. Quelle boccette mi costano molto e quello che faccio è solo per il bene degli altri”.
Uscirono avviandosi verso il motocarro.
“E’ una donna molto strana- disse Carmela alla madre- e se non sapessi che è di qua l’avrei detta zingara”
“La madre di Nunziatina era siriana. Il padre la conobbe in America. Si dice che sia stata proprio la madre a insegnarle i segreti della magia e pare che riesca a farsi mandare da alcuni parenti lontani i filtri più potenti”.
            Era ormai mezzogiorno, a giudicare dal sole. Si fermarono ad una fontana lungo la strada, mangiarono pane e formaggio e ripartirono. Carmela si chiese durante tutto il viaggio di ritorno come spiegare a Pasquale tutta quella faccenda. Non sapeva come l’avrebbe presa. Lui non credeva alle fatture e al malocchio e disprezzava chi ne parlava. La sera a letto cercò di prendere la cosa alla larga:
            “So che tu non credi a certe cose, gli disse, che non ammetti il ricorso a certe pratiche. Cerca di metterti nei miei panni”. Gli raccontò dove erano andate e che cosa avevano fatto, pregandolo di accettare tutto con pazienza.
            “Fallo almeno per me, come un piacere”
            Ma Pasquale, con meraviglia di Carmela, non se la prese, non fece i  commenti ironici che era abituato a ripetere quando si parlava di fatture e maghi. Ascoltò senza fare obiezioni. Disse che sapeva dove trovare le lumache malanude, vicino al torrente.  La sera prevista Carmela prese la piccola bottiglia. “Sarà più di un quarto” pensò guardando il liquido. Sull’orlo dell’ olio galleggiava uno strato denso e scuro. Carmela agitò a lungo la bottiglia e la diede a Pasquale che bevve d’un fiato. Terminò con una smorfia di disgusto e subito addentò il limone.
            Si guardarono senza parlare.

 

   Il giorno successivo, verso le nove del mattino, Pasquale si avviò verso il bosco. Aveva dormito senza fare cattivi sogni ma si era svegliato di malumore, stanco e pervaso da una profonda tristezza. Attraversò il piccolo prato coperto di margherite e si diresse verso il sentiero tra il bosco e il torrente. Si assicurò che sotto le pietre ci fossero le lumache senza guscio ma non volle prenderle . Gli ripugnava fare ciò che aveva promesso alla moglie.  Si inoltrò nel bosco. Tra i rami nudi filtravano i raggi del sole che ancora scaldavano poco. Tra le foglie secche di color ruggine spuntavano qua e là ciuffi di primule gialle. Pasquale ricordò quando ragazzo veniva in quel bosco a cercare primule che mangiava, gustandone il sapore dolciastro. In quel bosco veniva anche  a cercare asparagi. Tempi molto lontani. Forse qui verrà anche mio figlio, pensò e gli venne un nodo alla gola. Che ne sarà di lui se io non ci sarò? Che farà Carmela da sola? Gli sembrava di essere rassegnato al suo destino e non riusciva a capire perché fosse tanto pessimista. In fondo, molte persone si ammalano e poi guariscono. Anche quelle che si operano. Il professore era molto bravo. Anche la maga, a quanto gli aveva riferito Carmela, aveva detto che tutto sarebbe andato bene. Ma  dentro al pozzo ci sei tu, sei solo là dentro e vedi le cose diversamente. Gli altri, anche quelli più vicini e che sicuramente ti amano e partecipano alle tue sofferenze, ne sono fuori. E’ facile parlare, consigliare, fare coraggio. Se non sei proprio dentro il pozzo, non puoi renderti conto di ciò che si prova. Quando ci sei dentro, è diverso. Tocca a te. Vedi con altri  occhi. Tutto finisce col darti fastidio. Ti dà fastidio non parlare dei tuoi problemi ma te ne dà anche parlarne. Ti dà fastidio se ti compatiscono, ti dà fastidio se fingono di prendere tutto sottogamba. Quando entri nel pozzo, tutto ti diventa estraneo. Sei solo. Il tempo brutto ti opprime, una giornata di sole ti sembra un dispetto. Se senti ridere ti sembra che se ne freghino di te e che vogliano far risaltare la tua angoscia. Se solo ti sembra che tua moglie ha gli occhi lucidi o che abbia pianto, vai ancora più a fondo nel pozzo. Allora, pensi, è proprio vero che non ci sono speranze. Se senti qualcuno che dice dovrò fare questo e quest’altro pensi che tu non ci sarai più, non puoi fare progetti. Come si fa ad andare avanti se non puoi fare progetti ? Il sole sorgerà e splenderà ma tu non ci sarai più. La gente riderà, amerà, correrà e tu non ci sarai. Ma non perché è passato il tuo tempo e la fine deve pur venire. Non ci sarai e invece ci dovresti essere perché sei ancora giovane. Per fare l’amore, per divertirti, per lavorare, vedere crescere i tuoi figli, coltivare l’orto e vedere nascere le rose e sbocciare il ciliegio. La tua forza non si è consumata nel tempo, non l’hai ancora spesa tutta ed essa dà la spinta ai tuoi desideri.  E invece nasce qualcosa dentro di te che nemmeno te ne accorgi; non sai quando nasce, non sai perché nasce. Poi cresce e ti divora. La maga fa i suoi imbrogli e ti fa bere quell’olio puzzolente, il professore ti taglia anche se sa che non serve. I tuoi piangono e ti dicono di avere speranza ma la cosa cresce e ti invade e tu la porti dentro la puoi quasi toccare ma non la puoi mandar via. Ti mangia sino a finirti ed essa finirà con te ma non molla. Pensava confusamente Pasquale e camminava nel bosco senza sapere dove andava, calpestando rami secchi foglie primule formiche e vermi. L’ombra dei rami dei quercioli e i raggi del sole che filtravano passavano sui suoi occhi senza che se ne accorgesse. Il suo viso non sentiva il debole venticello primaverile. Lo scorrere del ruscello poco lontano non arrivava alla sua mente. Egli non avvertiva nemmeno quel profumo indefinibile di primavera  che lo aveva sempre inebriato. I suoi pensieri furono interrotti da una sensazione di  rimescolamento nella pancia. Gli sembrò che le budella si svegliassero da un lungo sonno, con un brontolio che man mano cresceva e sembrava girare nella sua pancia gonfia e dura , crescere e poi attenuarsi per riprendere subito forza. Avvertì dolori lancinanti al basso ventre. Cominciò a sudare freddo. “E’ la fine” pensò. I dolori aumentarono, sempre più prolungati e a intervalli ravvicinati. Gli sembrò che verso la parte più bassa del suo corpo qualcosa stesse per scoppiare. Tirò giù i pantaloni, quasi addossandosi ad un tronco al riparo nel bosco. Il sudore freddo gli colava dalla fronte. Non poteva trattenere i lamenti. Come un animale al macello, pensò ed ebbe pietà di sé e di tutti gli animali portati al macello. Finire in un bosco come un animale non è bello, pensò. Verranno a cercarmi. Mi troveranno col culo nudo come una bestia. I dolori diventavano sempre più intensi. Gli sembrò che gli si stesse lacerando tutto e che gli intestini dovessero fuoriuscire e spandersi nel bosco. Poi, con un gran dolore e un urlo che non potè trattenere, accoccolato come una bestia, stringendo tra le mani un ramo secco che aveva raccolto, avvertì qualcosa che gli uscì da sotto. Ne seguì una raffica di rumori, materiale e gas. Una guerra, una vera eruzione vulcanica. Non riuscì a rendersi conto di quanto tempo fosse passato.  Il dolore passò, cessarono i rumori. Pasquale rimase per un po’ come stordito. Non sapeva che pensare, se tutta quella gran bufera scatenata dalla sua pancia fosse la fine del suo esistere o delle sue sofferenze. Avvertì una sensazione di benessere. Gli sembrò che la sua pancia si fosse svuotata e afflosciata e si fosse messa a riposo dopo una rivoluzione. Come se avesse deciso di liberarsi ad ogni costo del suo contenuto. Si pulì con le foglie e guardò. Quello che tutti avrebbero guardato con ripugnanza a lui sembrò uno spettacolo magnifico. Nel mezzo di una montagna di materiale fecale di ogni tipo e di varia consistenza  si ergeva una palla perfettamente sferica, scura con la superficie untuosa e con striature di sangue rosso vivo, una sorta di parto doloroso ma gioioso, il frutto della sua sofferenza.
Pasquale la guardò incredulo. Subito dopo prese coscienza del suo stato di leggerezza. Guardò e toccò la sua pancia  sgonfiata. Rimase per un po’ immobile, incredulo, senza dar peso a una forte sensazione di bruciore lancinante che avvertiva in basso.
 “Possibile- pensò- è vero o è un sogno?”.
 Palpò di nuovo la pancia, guardò a terra. All’improvviso si sentì leggero e forte come se le sue gambe avessero riacquistato per miracolo tutta l’energia perduta.  Emise un urlò che fece volare gli uccelli. Si mise a correre tra gli alberi e con le braccia alzate come fanno gli atleti dopo una vittoria andava ripetendo a gran voce:
            “ Ho cacato il tumore, professore ho cacato il tuo tumore “.

 

Nicola Picchione
Dicembre 2002

 

Nota- Questo racconto trae spunto da un annedotto su Cardarelli. Si dice che il grande clinico raccontava ai suoi discepoli- per insegnare loro ad essere prudenti e umili- che un contadino del suo paese (C. era del Molise) si recò da lui a Napoli per essere visitato. Gli diagnosticò un tumore intestinale. Dopo qualche settimana il contadino si ripresentò da lui con un involucro di carta: conteneva un grosso fecaloma. Il contadino gli disse: “Professore, ho cacato il tuo tumore”.